Voci a confronto
Iniziamo lo spoglio dei giornali rimandando all’intervista di Alain Elkann a Jonathan Sacks su la Stampa . Il Gran rabbino della Gran Bretagna e del Commonwealth, nota figura di umanista, conosciuto nel nostro paese grazie anche alla traduzione del suo libro su «la dignità della differenza» (pubblicato da Garzanti nel 2004), riflette, tra le altre cose, sul «principio speranza» come strumento nella costruzione dei rapporti interpersonali e come elemento fondamentale della democrazia. In buona sostanza, come avrebbe convenuto anche Norberto Bobbio, non c’è regime democratico se la libertà non si incontra con lo sguardo fiducioso verso il futuro, cosa che implica la riformabilità del presente. Non di meno l’intervistato esercita il suo giudizio su tutta una serie di questioni che sono all’ordine del giorno nel dibattito su (e tra) ebrei ed ebraismo: Israele, antisemitismo, identità e così via. Chi ha avuto a che fare con Sacks, anche solo indirettamente, sa quanto il suo pensiero possa risultare pregnante e ben poco scontato. Dopo di che, la sua riduzione in “pillole” per una pagina di giornale, ci restituisce assai meno di quello che potrebbe dirci, rischiando sempre di scivolare sull’ovvietà del giudizio lampo. Il notiziario quotidiano, alla voce cronaca, è però assai più prosaico. Davide Frattini ricorda, per il Corriere della Sera , la battaglia di Ilana Romano e Ankie Spitzer – entrambe vedove di due degli undici atleti assassinati a Monaco di Baviera nel 1972, Yossef e Andrei -, affinché nelle prossime olimpiadi, che verranno inaugurate a Londra tra poche settimane, sia commemorata la memoria dei loro cari. All’indisponibilità del Cio, che per voce del suo presidente, il belga Jacques Rogge, ha detto di no al minuto simbolico di silenzio (con il sostanziale accordo del rappresentante israeliano), Ilana ha contrapposto una petizione, sottoscritta elettronicamente da 90mila persone. Probabile che non se ne faccia nulla, laddove le ragioni della cosiddetta “realpolitik” possono più di qualsiasi valutazione di principio. E tuttavia la battaglia morale e civile ha una sua ragion d’essere, non solo, ovviamente, per i famigliari di coloro che perirono in quella tragica vicenda terroristica, ma anche e soprattutto per quella parte del mondo che, per diversi giorni, rimarrà incollato alle televisioni per assistere alle gare, inconsapevole di quello che si consumò una quarantina d’anni fa. Il Medio Oriente continua, ovviamente, a fare parlare di sé. Carlo Panella si sofferma, con un’analisi puntuale e sottoscrivibile per Espansione , sull’atavica condizione dell’Arabia Saudita, anello cruciale del sunnismo, caposaldo dell’integralismo politico-religioso e paese completamente privo della anche più pallida forma di democrazia. La presenza del wahabismo-salafismo, espressione degli interessi del clan Saud e intransigente versione della religione musulmana, è garantita non solo dal suo solido ancoramento al potere ma anche dalla sua diffusione in buona parte del mondo islamico con una rete di almeno 5mila moschee e attraverso il sostegno economico e militare dei gruppi armati che fanno riferimento ad esso, sia in funzione anti-sciita che anti-occidentale. La successione di astanti è ampia e bene assortita: la rete alqaedista, il movimento talebano, gli Shabab somali, i Boko Haram della Nigeria, i fondamentalisti antirussi ceceni e così via. Segmenti diversi, in parte autonomi, di quella galassia dell’estremismo più radicale che ha individuato già da tempo nell’Africa uno dei suoi territori elettivi di espansione. In Libia, nonostante le assordanti minacce dei fondamentalisti islamici, che hanno promesso morte e distruzioni, si vota per l’elezione del nuovo Parlamento, il primo dopo la fine del regime dispotico di Muhammar Gheddafi. Così Lorenzo Cremonesi per il Corriere della Sera , Andrea de Giorgio e Luca Pistone su il Fatto (con un piccolo reportage da Abu Slim, già roccaforte degli uomini del deposto autocrate libico), Vanna Vannuccini per la Repubblica , Roberto Bongiorni su il Sole 24 Ore e Ma. Bre per la Stampa . Le stesse elezioni, almeno quelle libere, non si tenevano dall’ormai lontano 1952. Se nel 1965 il voto si svolse in assenza di partiti politici organizzati, nel 1969 la successione elettorale fu definitivamente interrotta dalla nascita della Repubblica araba di Libia e poi, nel 1977, della Jamāhīriyya (la cosiddetta «Repubblica delle masse»), due forme istituzionali rigidamente autocratiche. Parrebbe dunque che le operazioni di voto si siano svolte in maniera sufficientemente accettabile, con una buona affluenza in almeno il 94 per cento degli oltre 1.500 seggi sparsi per tutto il paese. Attivissimi, in mezzo al grande numero di liste civiche, perlopiù su base locale, i Fratelli musulmani, di cui la parte laica del paese, quella maggiormente legata alle grandi città, teme la vittoria. Non è di questo avviso Faisal al Krekshi, segretario dell’Alleanza delle forze nazionali (un cartello di una sessantina di partiti non religiosi, a matrice cosiddetta “liberale”) che, intervistato su la Repubblica , pronostica la sconfitta degli islamisti. I quali, tuttavia, nelle sue stesse parole, possono contare su «enormi risorse finanziarie di origine oscura». Il volontarismo che Krekshi manifesta («noi abbiamo le risorse umane») potrebbe rivelarsi presto puro velleitarismo se non si confronterà con un contesto di estrema frammentazione del voto così come delle liste, una divisione concorrenziale che rischia di premiare le uniche forze capaci di presentarsi agli elettori come in grado di unire un paese fratturato sia in tre grandi regioni (la Cirenaica, la Tripolitania e il Fezzan) che in gruppi di interesse e di fedeltà tra di loro seccamente contrapposti. Riflessioni simili possono dedursi da un’altra intervista, quella di Umberto De Giovannangeli per l’Unità a Mohmoud Jibril, già premier del Consiglio nazionale di transizione. Ancora Lorenzo Cremonesi, sempre sul Corriere della Sera , ci aggiorna sulla situazione libica facendoci un resoconto delle forze armate in campo, pronte a darsi battaglia le une contro le altre. Non è un ritratto galvanizzante, malgrado le parole rasserenanti, per la medesima testata , di Ali Tahruni, giovane ministro del Petrolio nel Consiglio del governo transitorio libico, soprattutto là dove si dà ragione del frazionamento territoriale dei poteri, dell’anarchia ingenerata dalla fazionalizzazione delle lotte, della mancanza di un organismo comune in grado di tenere insieme gruppi la cui ragione d’esistere è dettata dal fatto stesso che la giurisdizione, dal momento in cui Gheddafi è stato defenestrato, risulta di nuovo suddivisa secondo aree di influenza che corrispondono alle vecchie e nuove aggregazioni tribali. La presenza asfissiante delle milizie armate si inquadra in questa ottica, prevedibile risultato della rottura del “patto di reciprocità” di cui il defunto rais era garante. Inutile quindi deprecare la condizione in cui si trovano i prigionieri delle diverse fazioni, in balia dei loro guardiani. L’arbitrio è dominante, cosa che non può che fare pensare – e di molto – , soprattutto qualora ci si soffermi, con le opportune comparazioni e contestualizzazione, sul fatto che il “modello Somalia” (una sorta di terra di nessuno, una zona franca dove ognuno ritiene di potere esercitare con la forza il suo controllo e dove i peggiori commerci illegali hanno corso) è qualcosa di più di una prospettiva di scuola. Non diversamente da quanto sta accadendo tra Tripoli e Bengasi potrebbe così succedere anche nella Siria post-Assad. Poiché se la disintegrazione dei poteri dispotici, oramai cristallizzatisi su di sé, è un fatto che è derivato dai sommovimenti dell’anno appena trascorso nel Mediterraneo, la transizione verso forme stabili di governo delle società e l’apertura delle istituzioni al pluralismo, non solo politico, non hanno avuto nessun corso. Si rischia di passare, in buona sostanza, dalla padella nella brace. Infine merita un richiamo la figura di Federico Coen z.l., deceduto a Roma due giorni fa, di cui Biancamaria Bruno su il Corriere della Sera fa un breve ritratto. Attivamente impegnato in politica, nelle file del Partito socialista (dal quale era infine uscito negli anni di Craxi), già direttore del mensile «Mondoperaio» e poi di «Lettera internazionale», era una figura significativa del mondo culturale italiano, avendovi introdotto molti autori provenienti dall’Est europeo, sia letterati che umanisti. Il suo impegno era stato orientato con particolare intensità sui temi della laicità e dei diritti civili. Ci ha lasciati all’età di 86 anni.
Claudio Vercelli