Voci a confronto
Che cosa facevano ieri pomeriggio il neopresidente egitaziano Mursi e il capo della giunta militare Tantawi assistendo a fianco a fianco a un’esercitazione di karate di cadetti? Conversavano amabilmente (Zecchinelli sul Corriere) o si guardavano in cagnesco con “assoluta freddezza” (Panella su Libero). I giornalisti non riescono a mettersi d’accordo neppure sul senso degli sguardi fra i protagonisti della crisi egiziana: innocua “partita a scacchi” o “golpetto” e prospettive di guerra civile”? Insomma, ci sono o ci fanno? Non si sa. Quel che è certo è che l’America di Obama si è affrettata a esprimere il proprio gradimento per Mursi, invitandolo a visitare New York a settembre, completando così il capolavoro strategico di non riuscire ad avere più neppure un amico in Medio Oriente e di appoggiare sistematicamente i propri nemici (Fiamma Niresntein sul Giornale). E si può ben esercitare l’ottimismo della volontà apprezzando i risultati delle elezioni libiche come prova del fatto che resista una potenzialità evolutiva delle rivolte arabe – è quel che fa un commentatore serio e rispettabile come Pierluigi Battista sul Corriere -, ma resta il fatto che dappertutto nel mondo arabo, in Libia come in Egitto, in Siria come altrove, la scelta sembra essere fra la padella e la brace, i dittatori che continuano il lignaggio nazionalista-socialista dei Nasser e gli islamisti di diversa intensità e connotazione. E di fronte a questo quadro e alla sostanziale acquiescenza dell’Occidente, sarebbe strano, se si conoscesse il carattere molto ideologico dei suoi interventi, leggere un articolo di A.B. Yehoshua in cui si spiega che la perdita di simpatia di Israele in Europa è tutta dovuta alle “colonie” (La stampa). Lo scrittore ricorda che ai tempi della guerra dei Sei Giorni tutta l’Europa era pro-isreliana (il che è falso, come non solo le memorie di molti ma parecchie ricerche storiche possono testimoniare, perché allora si era già consumata la rottura con la sinistra), e sostiene che se oggi quelle simpatie non ci sono più, questo deriva dall’aver costruito su “terre altrui” – il che non è vero, nel senso che non sono affatto “territori palestinesi” come vuole la sinistra, ma spazi la cui appartenenza non è ancora definita, come ha stabilito nei giorni scorsi per l’ennesima volta una commissione ufficiale dello stato israeliano presieduta dall’ex presidente della corte suprema Levy. Ma lo scritto di Yehoshua non è che l’ultima dimostrazione del cupio dissolvi ideologico che la sinistra israeliana condivide con i policy maker dell’Europa e dell’amministrazione americana. Fra gli atri articoli da segnalare: Scroppo sul Foglio dà notizia di un libro di Gertrude Himmelfarb uscito in Gran Bretagna che vanta un tradizionale filosemitismo britannico (devo dire che negli ultimi decenni non ce ne siamo proprio accorti); Silvio Perrella sul Mattino pubblica dei toccanti appunti di viaggio “sulla strada dello sterminio”; Zecchini su Le monde dà notizia degli sviluppi della controversa questione dell’estensione della leva obbligatoria a charedim e arabi israeliani, su cui si gioca una partita importantissima non solo per la vita del governo Netanyahu ma per il futuro stesso della società israeliana; sulla Stampa si può leggere dell’indignazione delle famiglie delle vittime della strage di Tolosa per la trasmissione televisiva delle conversazioni telefoniche intercorse fra l’assassino e la polizia.
Ugo Volli