Voci a confronto

Tempo estivo, tempo rilassato. O almeno così si spera. Nulla di particolarmente rilevante da segnalare nello spoglio domenicale della stampa. Come spesso capita in queste circostanze ci si può allora dedicare con maggiore attenzione agli articoli di commento o a quelli di taglio letterario. Così è nel caso di Marco Belpoliti che sulla Stampa affronta il “continente Primo Levi” riflettendo sulle alterne fortune di un autore diventato, per molti aspetti suo malgrado, personaggio di fama internazionale. Sulla sua «impossibilità di essere anacronistico», e sui benefici, ma anche sui dolori, che gli sono derivati dall’essere divenuto il testimone del Novecento per eccellenza, si è già interrogata una parte del mondo letterario ed intellettuale. Belpoliti ci ritorna riflettendo su un libro che indaga sul rapporto tra Levi e il giornalismo, essendo stato per oltre dieci anni, tra il 1975 e il 1987, una prestigiosa firma del quotidiano torinese. Ne emerge il ritratto di un uomo mite ma al contempo moralmente severo, ispirato da una solida etica quotidiana, trasfusa nei giudizi che formulava sui fatti della contemporaneità. Condivideva tale indole con altri torinesi come Massimo Mila, Alessandro Galante Garrone e, per estensione, un po’ tutta la schiatta azionista. A ciò si accompagnava una sottile ironia, intersecata ad una curiosità culturale pressoché illimitata e al bisogno di compiere scorribande intellettuali in campi anche distanti dalla sua professione di chimico e dai suoi esercizi di autore. La cifra intima della sua scrittura, molto spesso ancorata ad un netto realismo e a un duro oggettivismo, quasi cronachistico, era fondata sull’attrazione per la enigmaticità sottesa all’animo umano. Da questo punto di vista si può senz’altro dire che la fortuna delle sue opere maggiori è fortemente legata a questa impronta. Levi ha sempre accolto in sé lo sguardo indagatore di colui che osserva, anche nelle condizioni più improbabili, l’agire dei suoi simili non per giudicarlo bensì per comprenderne l’essenza. Per questo modo di essere cortese antropologo della modernità la sua lezione rimane inesaurita. Per venire ad argomenti più cronachisti (ed avvilenti) da registrare il gesto degli atleti libanesi di judo che, trovandosi a dovere condividere per gli allenamenti la medesima palestra con i loro colleghi israeliani, hanno posto come condizione per proseguire nelle loro attività di avvalersi un separè che isoli gli uni dagli altri. Il «muro» è stato prontamente eretto dai funzionari del Cio, così come ci raccontano Stefano Semeraro su la Stampa e Maurizio Crosetti per la Repubblica. Di segno esattamente opposto, invece, la decisione della nostra nazionale olimpica di incontrare quella israeliana, come resoconta la Gazzetta del Mezzogiorno, rispettando in tal modo quel minuto di silenzio in memoria delle vittime del 1972 che gli organizzatori di questa edizione delle Olimpiadi non hanno invece voluto riconoscere. Il Medio Oriente continua a riservarci la lunga agonia della Siria di Assad. Questa volta, dopo i massacri invernali di Homs e gli scontri a Damasco, conclusisi a favore delle truppe governative, è la volta di Aleppo, dove sta consumandosi una nuova mattanza. Al riguardo se ne trova notizia per le firme di Lorenzo Cremonesi su il Corriere della Sera, di Gian Micalessin che scrive un informato articolo per il Giornale, di Luke Harding su la Repubblica, di Umberto De Giovannangeli su l’Unità e di Alberto Negri per il Sole 24 Ore. Peraltro le vicende siriane non possono essere disgiunte da un ragionamento di quadro sugli assetti geopolitici della regione. Così Michele Giorgio, per il Manifesto, su quanto avviene in Arabia Saudita, tra la maggioranza sunnita e la minoranza sciita, tenendo in considerazione che il paese, insieme alla Turchia, ed auspici la Russia e la Cina, sta tirando le file dei movimenti di opposizione agli alauiti. Un rassegnato articolo è quello di Giandrea Gaiani su Libero, dove l’autore offre il resoconto del ritiro prossimo venturo delle truppe italiane (e degli altri contingenti europei ed americano) dall’Afghanistan. La contabilità, economica e umana, in questo caso dà il segno non solo dei costi elevatissimi che si sono dovuti sostenere per una impresa di «Peace making and keeping» che è parsa, in più di un’occasione, non avere baricentro, ma anche del dilemma che questo genere di operazioni militari crea, irrisolte come sono tra lo stabilire e il mantenere sine die un onerosissimo controllo diretto dei territori e la necessità di traslarlo alle truppe locali. Queste ultime, specchio della debolezza politica e delle compromissioni del potere centrale, sono gli unici interlocutori esistenti, ma sulla capacità di resistere una volta che il ritiro della missione militare alleata dovesse essere completato, le incertezze sono molto.

Claudio Vercelli