Voci a confronto

Guerra con l’Iran? Sì, ma quando? E intanto Israele sembra mettere a punto tutti i preparativi necessari per rendere possibile una azione militare che deve essere all’altezza delle grandi guerre della storia di Israele. Questo è un tema trattato da quasi tutti i quotidiani di oggi. Come illustra compiutamente un editoriale del Foglio, Avi Dichter, ex capo dello Shin Bet, i servizi segreti, ed ex parlamentare di Kadima (ha appena dato le dimissioni da parlamentare dell’opposizione per poter entrare nel governo), guida da ieri il nuovo ministero della difesa interna, appendice del ministero della difesa. Ed Israele studia attentamente anche quelli che saranno i costi, diretti ed indiretti, di una guerra che dovrà essere breve per poter essere sopportabile. Ma non tutti in Israele accettano questa soluzione, e, come scrive Alix Van Buren su Repubblica, c’è chi, come lo scrittore Amos Oz, ricorre alle vie legali per ottenere che sia il governo tutto, in seduta plenaria, a decidere in favore di un intervento che, tuttavia, non è certamente solo nella testa di Netanyahu (alcuni sostengono addirittura che sia Barak più che lo stesso Bibi a spingere per questa soluzione). Netanyahu insiste con Obama affinché prospetti all’Iran il rischio di una guerra se non rinuncia al programma nucleare, ma il presidente USA non ci pensa affatto, restando legato alle proprie convinzioni che le sanzioni saranno sufficienti per bloccare il programma nucleare iraniano.
Diverso è lo scenario di guerra siriano, che continua con le sue cifre spaventose (i giornali parlano oggi di già 23000 morti, ma nessuno descrive a dovere anche le condizioni dei vivi, alcuni dei quali stanno telefonando agli amici in Europa per spiegare quelle che sono le loro condizioni insopportabili). L’ex primo ministro fuggitivo (sunnita) rilascia un’intervista ripresa, tra gli altri, da Lorenzo Cremonesi sul Corriere, nella quale spiega di aver abbandonato il regime dopo aver perso ogni fiducia in leader corrotti e brutali che mai cambieranno. Peccato che, evidentemente, avesse ancora tale fiducia quando accettò la promozione a primo ministro solo poche settimane or sono; lui, navigato uomo di governo, non conosceva i suoi colleghi? Sono riflessioni che, a parere di chi scrive, si devono fare quando si leggono certe affermazioni. Il Corriere riprende anche un articolo di Bernard Henry Levy del quale già ieri si è parlato in tutto il mondo dopo la prima pubblicazione in Francia; BHL spiega che coerenza impone che si faccia in Siria quanto si è fatto in Libia. Non ci si deve fermare se la strada non viene aperta dall’ONU, perché altri organismi internazionali possono sostenere chi sia pronto ad intervenire. Bisogna impedire che, in un domani, si possa imputare ad Assad il bagno di sangue, ma all’Occidente le lacrime di coccodrillo. Assad è una tigre di carta, e basta imporre una no fly zone e rendere impossibile lo spostamento delle truppe governative per ottenere quanto si desidera, senza arrivare ad una soluzione militare del genere di quella dell’Afghanistan. Obama, scrive BHL, è bloccato dalle prossime elezioni, ma Hollande è nelle condizioni ideali per prendere in mano la situazione, prima che l’Iran si doti dell’arma nucleare rendendo tutto più difficile. Molto meno convincente appare tuttavia l’intellettuale francese quando si esprime sul futuro della Siria nel quale, afferma, gli Occidentali potranno essere ascoltati perché saranno visti non già come i vecchi colonizzatori, ma come gli amici che li avranno aiutati a liberarsi dal dittatore. Ma contro la no fly zone si è già espresso nei giorni scorsi Panetta, come scrive Paolo Mastrolilli su La Stampa, ed intanto Assad supera le difficoltà economiche con l’aiuto delle banche russe e si approvvigiona del necessario diesel grazie alle raffinerie dell’Angola.
Oggi, nel frattempo, si incontrano in Arabia Saudita iraniani e sauditi nel tentativo di trovare un’intesa, almeno tra di loro, ma non certo, come scrive Lorenzo Trombetta su Europa, per “spartirsi il levante arabo con il gigante Israele”; in questo articolo si legge anche che fino al 2010 il MO era un palcoscenico gestito da petrolmonarchie del Golfo (non ci sono più? ndr), dall’Iran e da Israele. Ben debole il ragionamento di un giornalista che segue da anni le vicende dell’area. L’unica verità che scrive è che, ad entrambi i paesi interessa comunque imporre un regime islamico radicale, ma non spiega come superare la divisione sciita-sunnita. Panorama pubblica un’intervista a Robert Fisk, da anni corrispondente di guerra, che spiega che i sauditi cercano tutte le soluzioni per bloccare l’espansionismo iraniano. La dittatura di Assad, secondo Frisk, non sarebbe nulla in confronto a quella imposta a suo tempo da Saddam Hussein, e non ci si deve neppure preoccupare per quanto succederà dopo le rivoluzioni arabe. E’ giusto che i partiti religiosi (Fisk si riferisce in particolare ai Fratelli Musulmani ed ai Salafiti) possano governare, e afferma che poi perderanno tranquillamente il potere scontrandosi con le oggettive difficoltà di governo (l’Iran non gli ha insegnato evidentemente nulla ndr).
Due brevi su Avvenire e Libero spiegano che gli egiziani vogliono rivedere gli accordi con Israele per poter inviare i loro militari in un Sinai oggi smilitarizzato; i recenti episodi hanno dimostrato che il trattato di pace non ha impedito agli egiziani di compiere quanto hanno voluto e dovuto compiere, mentre la revisione degli accordi andrebbe, a parere del sottoscritto, ben oltre questo.
Interessante un articolo di Camille Eid che, su Avvenire, spiega che Ennahda in Tunisia vuole abolire l’uguaglianza tra uomini e donne per arrivare alla loro “complementarietà”, rifiutata da tante persone che hanno potuto godere di quanto Bourghiba aveva concesso, conscio del fatto che un uomo, con quattro mogli, non può essere equo come il corano comanda.
Giulia Cerqueti su Famiglia Cristiana descrive i risultati ottenuti da una scuola di musica che, facendo studiare insieme bambini arabi ed ebrei, insegna loro a conoscersi. Questa scuola si avvale, in particolare, di tanti insegnanti ebrei giunti dalla Russia, ma non è altro che una copia di quanto, ad esempio, Edna Calò Livne fa da anni in Israele, e non menzionato dalla Cerqueti.
Infine da segnalare l’articolo sull’International Herald Tribune che, con assoluta superficialità spiega che in fondo in Israele tutto procede per il meglio e non vi sono pericoli di sorta, interni od esterni, che i governanti debbano affrontare, e quello di Davide Mundo che sul Manifesto deplora che un soldato israeliano sia stato condannato a solo 45 giorni di prigione per avere sparato contro civili in fuga con la bandiera bianca durante la guerra di Gaza; nella sua “fede” non si accorge della democrazia e dell’osservanza delle leggi di uno stato che è capace di punire i propri soldati per questi atti, a differenza di quanto avviene in tutti i paesi limitrofi, a partire proprio dalla striscia dove Mundo passa le sue giornate.

Emanuel Segre Amar