Voci a confronto
Che il disordine sia grande sotto cielo (ma che la situazione non sia magnifica) lo si intuisce leggendo notizie che non ci possono più sconcertare, come quella che ci racconta di come la «folla», termine in sé molto generico, abbia preso d’assalto a Bengasi uno dei quartieri generali della milizia salafita Ansar al-Sharia, alla quale è attribuita la responsabilità dell’assassinio dell’ambasciatore americano Christopher Stevens e di tre dei suoi collaboratori. Ne parlano Michele Pignatelli su il Sole 24 Ore, Paolo Alfieri per l’Avvenire, Guido Olimpo per il Corriere della Sera (quest’ultimo propendendo di più per un regolamento di conti tra le diverse milizie presenti in territorio libico), Rolla Scolari su il Giornale, Carlo Panella per Libero, Vincenzo Nigro su Repubblica insieme all’articolo “on the road” di Giovanni Cerruti sulla Stampa. L’episodio non è unico né isolato, potendo essere interpretato con più chiavi di lettura, non necessariamente alternative tra di loro, semmai coesistenti. Conflitto interno alla composita ed eterogenea compagine dei vincitori; frattura tra componenti cosiddette moderate (come i Fratelli musulmani) e gruppi radicali; lotta per interposti soggetti tra potenze regionali per il controllo del bacino Mediterraneo; scosse di assestamento tra popolazione civile e nuovi padroni del paese; lotte tra milizie per il controllo di singole porzioni di territorio, quest’ultimo con una giurisdizione non più unitaria. Il prematuro affaticamento dei partiti islamisti di regime, quelli meglio strutturati, a partire proprio dalla fratellanza musulmana che deve confrontarsi con un pulviscolo di formazioni armate assai poco proclivi a riconoscerne il primato, lo si può desumere anche dall’intervista di Lorenzo Cremonesi a Rachid Ghannouchi, leader di Ennahda («Rinascita»), il partito al potere in Tunisia, su il Corriere della Sera. Di certo sta montando un’insofferenza diffusa da parte di significativi settori di quella popolazione maghrebina appartenente a Stati che, se avevano conosciuto forme più o meno violente di autocrazia, erano tuttavia riusciti a respingere la presenza islamista. Il patto implicito che ha funzionato con dittatori come il libico Gheddafi e il siriano Assad, ma anche con personaggi meno tenebrosi ma altrettanto clientelari come l’egiziano Mubarak o il tunisino Ben Ali, implicava che la clemenza con la quale venivano giudicati i loro illeciti da parte della comunità internazionale sarebbe stata ricambiata con la funzione di cani da guardia contro il fondamentalismo religioso. La cosiddetta «laicità» dei loro regimi si basava su questo aspetto, peraltro non certo secondario negli interni assetti di potere, riuscendo a garantire una coesione che ha retto fino al momento delle sollevazioni popolari. Il problema è che uno degli esiti principali della «primavera araba» si è rivelato essere l’estensione, anche negli stati dell’Africa mediterranea, di quei modelli di “anarchia controllata” che il radicalismo musulmano da molto tempo utilizza nel Corno d’Africa così come in tutta la regione subsahariana, oltre che nel Medio Oriente. Accenni di tale processo si trovano oggi nell’articolo di Camille Eid su l’Avvenire. L’islamizzazione di vasti territori, a ridosso del Kenya, in Nigeria così come nel Sudan meridionale, solo per citare alcuni esempi, prefigura il vero confronto che di qui ai prossimi decennio caratterizzerà il tentativo di dominio su regioni a loro modo particolarmente ricche di risorse naturali (ed umane): quello tra i cinesi e i russi, da una parte, e i gruppi di pressione islamista dall’altra. Mentre la presenza americana – e con essa gli equilibri che hanno caratterizzato la storia della seconda metà del secolo appena trascorso – si sta rivelando sempre più infiacchita e, quindi, in declino, l’Europa dovrà confrontarsi con un bacino del Mediterraneo indebolito e trasformato. I paesi dell’Unione, ovvero la Spagna, l’Italia e la Grecia (ma anche Malta), già da adesso, sia pure con intensità diverse, subiscono violentemente i contraccolpi di una crisi economica strutturale che ne sta ridisegnando il ruolo e le fisionomie anche sul piano geopolitico. Nel Mediterraneo meridionale ed orientale il quadro è quello che, passo dopo passo, va delineandosi, sia pure in forma ancora confusa, laddove sauditi e turchi giocano una partita egemonica il cui vincitore è ben lontano dal potere essere individuato. La confusione, quindi, come si diceva in esordio, è la nota dominante in una fase di lungo trapasso che di certo ci consegnerà un quadro di riferimento molto diverso da quello che ancora oggi siamo abituati a considerare.
Claudio Vercelli