Hanukkah – Il miracolo negato
La recente scomparsa del dottor Marco Spizzichino, che prima di esercitare per molti anni a tempo pieno la professione medica era stato insegnante di materie ebraiche alle scuole elementari di Roma, ha evocato, proprio alla vigilia di Hanukkah, l’immagine del morè Spizzichino che dirigeva il coro dei bambini nella tradizionale festa delle scuole che si svolgeva al Tempio Maggiore (e ancora vi si svolge). Ricordo i suoi gesti decisi e ritmati che guidavano i bambini a cantare Mi yemallel gvurot Israel… Uno dei tanti canti per Hanukkah, che ancora oggi circola nelle nostre scuole e nelle riunioni pubbliche festive. Sollecitato da questo ricordo, ho provato a cercare qualche notizia su questo canto e mi si è aperto davanti un mondo intero. Che va riscoperto e spiegato perché è una chiave di comprensione (o di incomprensione) dei significati contraddittori della festa di Hanukkah.
Ogni canto è fatto di un testo e di una melodia. Il testo del Mi yemallel è stato scritto, verso gli anni Trenta, da un personaggio abbastanza noto, Menashe Rabina. Nato nel 1899 in Ucraina, fece studi laici, tradizionali in yeshivòth e soprattutto musicali; dal 1924 si insediò a Tel Aviv; morì nel 1968. Musicista e musicologo impegnato, dette un grande impulso all’educazione musicale in Erez Israel e alla crescita delle sue musiche, che contribuirono a creare l’atmosfera del paese. Fu autore di testi e melodie famose. Nel caso del Mi yemallel, del solo testo, mentre la musica è “popolare”, sembra di origine inglese. Uno strano miscuglio, che diventa ancora più enigmatico quando si riflette al significato dei pochi versi della canzone.
In italiano: “Chi potrà dire le prodezze di Israele, chi potrà enumerarle?/ Ecco in ogni generazione sorgera l’eroe redentore del popolo./ Ascolta: in quei giorni, in questo tempo/ il Maccabeo salva e riscatta/ E nei nostri giorni tutto Israele/ Si unirà, sorgerà e sarà redento”.
A parte la retorica, comune in molti inni del genere, l’esame del testo, che cita espressioni antiche e tradizionali, a un esame appena più approfondito è rivelatore di una rivoluzione. Perché l’espressione iniziale, Mi yemallel gvurot, è presa dalla Bibbia, dal Salmo 106:2, solo che nel Salmo le prodezze sono quelle del Signore, mentre qui sono quelle di Israele. Nello spirito tradizionale il “redentore” non sorge da solo, ma viene fatto sorgere, e chi “salva e riscatta” è il Signore stesso, talora per mezzo degli uomini, ma mai gli uomini per conto proprio. Dunque la poesia rivela uno spirito a-religioso se non antireligioso, in cui si sostituisce, all’opera redentrice divina che guida la storia, l’autonoma rivolta umana. L’autore lo fa usando il vocabolario della tradizione, persino quello liturgico (“ascolta”; “in quei giorni in questo tempo”) che viene però stravolto. E’ un’operazione tipica di un certo periodo e di una certa anima del movimento sionistico, che predicava il risorgimento del popolo ebraico in contrasto con i gruppi più religiosi che vedevano in questo un sovvertimento della storia e del destino diasporico segnato dall’alto. In terra d’Israele questo contrasto veniva perfettamente notato, e quindi accettato polemicamente da ampie fasce sioniste e rigettato dagli antisionisti o dai sionisti religiosi. Stupisce un po’ la diffusione di questo canto nella Roma ebraica, che non sappiamo quando sia arrivato, probabilmente dopo la guerra, e passi per i sionisti non religiosi, ma non si capisce molto l’uso comune e accettato dentro al Tempio Maggiore, dove molti l’hanno sentito cantare e anche imparato.
Se si pensa al repertorio comune dei canti di Hanukkah, la contraddizione è notevole. L’uso dei sefarditi e degli italiani si limitava al canto del Salmo 30, Mizmor shir chanukkat habayt leDavid. Gli ashkenaziti invece hanno dal medioevo il famoso Ma’oz Tzur, che è un inno religioso, in quanto è preghiera di redenzione rivolta alla “Fortezza, roccia della mia salvezza”; un canto che riassume le storie di salvezza, che tra le righe contiene allusioni piuttosto dure alla fine dei nemici, e che conserva un certo carattere militaresco sottolineato dall’antica marcetta tedesca che tutti conoscono (ne esiste anche una variante italiana forse un po’ più dolce).
Nel secolo scorso i canti si sono moltiplicati, con testi nuovi e melodie talvolta nuove, talvolta riciclate (fino allo Judas Maccabaeus di Handel). Mi yemallel nasce nell’atmosfera sionista rivoluzionaria, in cui tutto è rivolto alla capacità e alla volontà del popolo ebraico di scriversi da solo il proprio destino. E non è l’unico canto che rivisita le concezioni tradizionali. In Yemè haChanukkà il ritornello parla dei “miracoli e prodigi che hanno realizzato i Maccabei”, per intendersi, i Maccabei da soli hanno fatto il miracolo. In altri testi si nega direttamente il miracolo dell’olio. Prima di Yom ha’atzmaut, il giorno dell’Indipendenza, la festa più adatta per segnare lo spirito di rivolta ebraica era proprio quella di Hanukkah, di cui veniva esaltato il ricordo di un pugno di uomini che si ribellarono all’oppressione e crearono uno stato indipendente. Che poi i ribelli fossero sacerdoti, e lo facessero non tanto per l’indipendenza quanto per la libertà religiosa e in opposizione all’assimilazione all’ellenismo, contava meno nella rielaborazione mitica proto-sionista.
Ma a ben vedere questa opposizione di significati accompagna Hanukkah fin dalla sua istituzione. Il tema della luce e del miracolo, sottolineato dai maestri, è in chiara opposizione allo spirito rivoluzionario e militaresco della festa. I Farisei erano stati vittime della casa regnante degli Asmonei, gli eredi dei sacerdoti vittoriosi di Hanukkah, che erano diventati re. I Farisei consideravano questa regalità un’usurpazione (il re legittimo di Israele può essere solo un discendente da David), e pagarono a duro prezzo questa loro opposizione. Se Hanukkah doveva essere la celebrazione dell’insediamento di una monarchia illegittima, non c’era motivo di celebrarla. Ma Hanukkah era anche la vittoria contro l’ellenismo, la restaurazione del Tempio; questa era l’anima di cui i Rabbini non potevano fare a meno. E da qui la centralità della storia del miracolo e la sua importanza centrale nella celebrazione.
Hanukkah riassume in questo modo una delle più importanti contraddizioni dell’ebraismo, tra anima laica e libertaria e tra anima religiosa permeata alla fede. Non è che la contraddizione sia così semplicistica. Esistono cento modi di viverla e ricombinare le cose insieme. Ma il risorgimento ebraico ha esaltato questa contraddizione. Oggi che viviamo nell’era definita “post-sionista” alcune di queste durezze si sono un poco attenuate. Ma solo poco. Tra chi vede la storia universale e quella ebraica in particolare come un prodotto umano e chi la vede invece come provvidenziale, tra chi privilegia un’identità ebraica statale e chi la vuole antistatale (se lo stato è quello ebraico non religioso), tra chi teorizza il diritto all’autodifesa militare (e all’attacco quando necessario) e chi considera la violenza sostanzialmente estranea all’anima ebraica, il dibattito, e spesso la polemica feroce, è estremamente attuale.
E tutto questo si nasconde dietro le fiammelle di questa festa, che continuiamo ad accendere in segno unificante, anche se al segno attribuiamo tanti significati differenti. Tra i messaggi nascosti nella storia del miracolo dell’olio c’è quello della permanenza nel tempo (x 8) dell’energia, che si verifica in un nucleo di “duri e puri”, contro ogni regola razionale e naturale, energia che consente a tutti di sopravvivere anche nei momenti più drammatici. Erano così energici anche i sionisti che ricostruivano la terra e lo stato, anche se molti di loro, con la loro ideologia, negavano proprio il simbolo che li rappresentava.
Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma