La sofferenza animale e la riflessione ebraica

Domenica scorsa si è svolta a Firenze la presentazione dell’ultima “Rassegna mensile di Israel” (Giuntina editore), gloriosa rivista ebraica intitolata quest’anno “Gli animali e la sofferenza – La questione della Shechità e i diritti dei viventi”. É stata la prima tappa di un giro che la porterà a Napoli (10 maggio), a Genova (21 maggio) e a Roma (17 giugno). Insieme a Laura Quercioli Mincer abbiamo curato questo volume e ci abbiamo creduto fin dal principio, fin da quando organizzammo un convegno sulla Shechità alla fine del 2011. Ma questo risultato non sarebbe stato possibile senza il sostegno dell’Ucei, del Collegio rabbinico italiano, di Pagine ebraiche, dellecomunità ebraiche italiane e, naturalmente, di tutti i collaboratori.
Ritorniamo su questo argomento. Perché, come ebrei, dobbiamo occuparci della sofferenza animale? Innanzitutto per ragioni etiche, visto che i nostri testi sono densi di precetti che ci impongono il rispetto delle bestie e spiegano che mangiare animali è consentito ma va fatto all’insegna della pietà e del rispetto. Ma anche per una questione politica. Si parla spesso di valori ebraici e del loro apporto al vivere civile: non è forse un banco di prova, per questi valori, opporsi al macello a cielo aperto che è diventato il mondo (oltre tre miliardi di animali in questo momento sono allevati per essere mangiati sul pianeta)? Non è ebraico sottolineare – nell’indifferenza generale – gli enormi costi etici, ambientali, sanitari, economici del sistema di allevamento industriale?
Il dibattito, parlando di Shechità, ha mostrato che esistono, anche tra i rabbini, posizioni diverse. Lo stordimento dell’animale da macellare non è vietato pregiudizialmente, ma occorre trovare una modalità che non lo danneggi e quindi lo renda taref (inadatto). Ma il problema va allargato: possiamo oggi parlare di kasheruth senza occuparci delle condizioni indecenti e vergognose in cui gli animali vengono allevati? Può essere kasher un pollo che non ha mai toccato terra e respirato aria aperta in vita sua? Può essere kasher un pesce pescato con una rete di 120 chilometri? Su questo leader ebraici e rabbini devono aprire una riflessione coraggiosa. Minoritaria e difficile, ma anche entusiasmante e necessaria. Se così non fosse, che valori ebraici sarebbero?

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas twitter @tobiazevi

(9 aprile 2013)