Qui Torino – Un Centro per la pace

“Malgrado le nostre differenze, noi possiamo costruire la pace, non solo negoziarla. Possiamo costruire il nostro proprio contesto e non solo essere vittime del contesto che abbiamo ricevuto”. Ispirandosi a questi semplici concetti Shimon Peres e altri personaggi di rilievo della società israeliana hanno fondato nel 1996 il Peres Center for Peace. Da allora sono trascorsi diciassette anni, purtroppo il negoziato a livello governativo sembra proprio non aver fatto molti progressi, ma il Centro è invece una realtà in espansione che ha perseguito tenacemente i propri obiettivi che sono quelli di costruire ponti tra i palestinesi e gli israeliani, favorendo la reciproca conoscenza, aiutando soggetti svantaggiati e contribuendo a sopperire a talune carenze della società palestinese. Il Centro è diventato un punto di riferimento per tutti coloro che, in campo israeliano e in campo palestinese, credono ancora che un dialogo sia possibile e che sia necessario lavorare per abbattere le barriere psicologiche create dalle reciproche diffidenze. E così, in tutti questi anni, il Centro ha coinvolto sessantamila ragazzi israeliani e palestinesi in attività sportive comuni, ha fatto sì che centoventi medici palestinesi potessero conseguire in Israele specializzazioni non realizzabili presso di loro, ha favorito gli scambi commerciali e tecnologici tra imprese palestinesi ed israeliane, ha collaborato alla realizzazione di progetti agricoli, ha promosso iniziative culturali congiunte, mostre fotografiche ed artistiche, attività educative nelle scuole, etc. Ma il dipartimento del Centro certamente più conosciuto in Italia, è quello di medicina che con il progetto Saving Children, inaugurato nel 2003 grazie a Manuela Dviri, ha sostenuto le spese mediche per curare in ospedali israeliani più di novemila bambini palestinesi affetti da gravi patologie o menomazioni. Abbiamo detto che il dipartimento medico è il più conosciuto in Italia ma, senza volerne sminuire alcuno, forse il dipartimento che maggiormente contribuisce alla creazione di relazioni interpersonali tra ragazzi palestinesi ed israeliani è quello delle attività sportive perché non c’è nulla di meglio che far parte di una stessa squadra o di partecipare ad un torneo, per cementare amicizie durature e capaci di coinvolgere anche l’ambiente famigliare. Con alcuni amici abbiamo avuto recentemente l’opportunità di visitare il Peres Center nella sua prestigiosa sede di Yaffo, in un edificio che l’architetto Massimiliano Fuksas, in segno di apprezzamento per le finalità del Centro e di stima nei confronti del suo promotore, ha voluto progettare gratuitamente. E’ un edificio dalla struttura avvenieristica ma razionale che si affaccia sul mare in una zona significativamente abitata da arabi e da ebrei. Al suo interno, in un’atmosfera di efficienza e di entusiasmo, operano una trentina di persone, ebrei israeliani, arabi israeliani e volontari provenienti da diversi paesi, che seguono i vari dipartimenti in cui si articolano le attività del Centro. Per consentire al lettore di farsi un’idea della rilevanza dell’attività del Centro credo valga la pena narrare brevemente dell’esperienza compiuta visitando il reparto pediatrico dell’ospedale Sheba di Tel Hashomer, in cui vengono curati, a spese del Centro, la maggior parte dei bimbi palestinesi provenienti sia dalla Cisgiordania che da Gaza. L’ospedale dispone di una sezione di cardiochirurgia infantile dotata di attrezzature d’avanguardia che non esistono nei territori palestinesi e che consentono quindi di curare disfunzioni altrimenti letali. Durante la visita abbiamo avuto modo di constatare che la maggioranza dei piccoli ricoverati erano proprio palestinesi è ciò è dovuto al fatto che talune patologie sono prevalenti tra quelle popolazioni, sia per fattori genetici derivanti dalla diffusione del matrimonio tra consanguinei, sia per la scarsa propensione alle indagini prenatali. Entrando nell’ospedale ci siamo imbattuti casualmente in Fatma, una bimba che durante il conflitto di Gaza dello scorso novembre, aveva riportato una gravissima ferita a una mano, ferita che, se non curata in modo opportuno, avrebbe comportato la perdita di tutte le dita. Fatma, accompagnata dalla sua mamma e da Souha Atrash, una giovane arabo-israeliana co-responsabile di Saving Children, era tornata all’ospedale per un controllo della mano. In precedenza con un intervento di sofisticata chirurgia era stata possibile salvarle.

Tullio Levi, Pagine Ebraiche aprile 2013

(16 aprile 2013)