Tra riflessione e intenzione

L’ultimo libro di Sergio Luzzatto, “Partigia. Una storia della Resistenza”, si segnala all’atto stesso del primo contatto fisico, ossia quando il lettore lo prende in mano per la prima volta, soppesandone la qualità a partire dalle dimensioni, come un volume corposo. Sono quasi quattrocento pagine, impegnative e, a tratti, impegnate. La vicenda raccontatavi parte dal breve periodo in cui Primo Levi aveva militato in una banda partigiana, stanziata precariamente in Valle d’Aosta. Tra i giorni seguenti all’8 settembre e il 13 dicembre del 1943, data della sua cattura insieme a Luciana Nissim e Vanda Maestro, lo scrittore torinese aveva vissuto l’esperienza di un partigianato che era ancora in forse, al suo primo abbozzo. I resoconti, invero scarsi, di quella stagione fatta di necessità, più che di virtù, riflettono, com’è nella cifra di Levi, il senso di smarrimento che aveva accompagnato gli italiani, ed in particolare gli ebrei italiani, al momento del tracollo delle istituzioni regie, con la conseguente occupazione da parte tedesca dell’intero suolo nazionale non ancora liberato dagli angloamericani. Nel lasso di tempo in cui anch’egli era stato un “partigia”, modo gergale e colloquiale per definire un’appartenenza che doveva ancora assumere quei caratteri che le sono stati successivamente conferiti, si era dovuto confrontare con gli aspetti che in quel momento ne contrassegnavano invece pesantemente l’identità, laddove l’improvvisazione, il volontarismo e a volte il velleitarismo sopravanzavano la comunione organizzativa e la condivisione di chiari obiettivi politici. Per molti era soprattutto un’esigenza di sopravvivenza quella che faceva premio su qualsiasi altra considerazione. Dopo sarebbero subentrate passioni e identificazioni più strutturate. Dopo, per l’appunto. Non è un caso, peraltro, poiché ogni movimento di guerriglia attraversa un periodo di formazione in cui i caratteri ibridi, per così dire, hanno la prevalenza sulla definizione di modi, criteri e termini comuni per l’azione. La storia della Resistenza italiana, al netto delle apologie di circostanza e delle letture acritiche, le une e le altre oramai anacronistiche e controproducenti, è costellata di un’irrisolta miscela tra spontaneismo e organizzazione, sospesa come si trovò, in tutto il suo dipanarsi storico, tra rifiuto delle gerarchie, intese come mero autoritarismo, e ricerca di un coordinamento organizzativo che, inevitabilmente, rinviava anche alla definizione di un centro politico unitario o comunque collegiale. Peraltro, ed è questione questa molto problematica, al suo interno confluivano un po’ tutte le culture politiche antifasciste, compresi i lealisti monarchici e i cosiddetti «badogliani». Ad esse si sommavano gli sbandati del Regio esercito ed altro ancora. La piattaforma condivisa era la lotta contro la presenza tedesca e quella repubblichina. Ma al di là di ciò, le prospettive e i calcoli politici differivano e, a volte, di molto. Dopo di che Levi, partigiano un po’ suo malgrado, non ebbe modo di interessarsi agli sviluppi del movimento resistenziale. Sappiamo bene cosa comportò la sua cattura e quale abisso gli si spalancò dinanzi. Nei giorni precedenti all’arresto per mano delle milizie neofasciste, la piccola formazione nella quale si trovava, pur vivendo in una condizione di sospensione, in quanto non impegnata attivamente in attività belliche contro l’occupante, mandò a morte due giovanissimi componenti, Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano. Fu senz’altro l’evento più cruento al quale il chimico torinese dovette assistere. In quale modo non ci è dato però saperlo. La gestione di una “banda” partigiana era quanto di più difficile si presentasse per quanti ne erano chiamati in causa. All’accortezza di certuni si sommava l’avventurismo di altri. Quest’ultimo rischiava di compromettere i già non facili rapporti con l’ambiente circostante. Se la requisizione di alcuni beni dei valligiani si trasformava in furto – la linea di demarcazione tra i due atti poteva essere assai labile – il rischio che la denuncia arrivasse agli uffici dell’occupante era immediatamente dietro l’angolo. Con i prevedibili effetti. Non di meno, reggere la disciplina tra civili ed ex militari, giovani e meno giovani, provenienti tutti da un’educazione fascista ma spesso ora insofferenti verso le gerarchie, comportava uno sforzo notevole. Probabilmente, giacché poco o nulla delle colpe dei due condannati ci è stato poi detto in maniera assolutamente intellegibile, l’uno e l’altro, vittime di una giustizia senz’altro sommaria, hanno pagato un debito che solo in parte gli apparteneva. Salvo poi conoscere, a guerra conclusa, una sorta di impropria beatificazione che ne ha fatti martiri della causa antifascista. Anche da ciò derivarono le note di Primo Levi, rese poi pubbliche in alcune pagine del «Sistema periodico», sul senso di scoramento che dall’esecuzione della “sentenza” ne erano conseguite per chi, come lui, a tale determinazione non era per nulla abituato. Né intendeva adeguarsi, se non altro per preservare il carattere umano della sua identità di militante partigiano. Sergio Luzzatto riprende questo episodio, lo analizza con una certosina attenzione, interpolando fonti molteplici, ancorché scarse. Cerca in tale modo di dettagliarne la trama complessa. Tale è non solo poiché ricostruita a distanza di settant’anni dai fatti, vissuti peraltro già allora all’interno di un microcosmo di attori e luoghi per più aspetti lontani dalla “grande storia” (così come oggi altrimenti ci immaginiamo siano state le vicende del partigianato), ma anche e soprattutto perché deve confrontarsi con moventi, ragioni oltre che con sentimenti e risentimenti tra di loro spesso in contrasto. La storia del movimento di Liberazione è lontana dall’essere il racconto di una entità aprioristicamente coesa. La collegialità fu un obiettivo che si doveva confrontare con le mille avversità del caso, oltre che con i progetti e le intenzioni divergenti. Nonché, va aggiunto, con una irrisolta competizione che coinvolgeva le singole formazioni combattenti, soprattutto quand’esse aderivano a ispirazioni ideali non coincidenti. Non di meno, ed è questo un punto centrale, il problema di fondo del partigianato era quello del rapporto con la violenza. Nel momento in cui il monopolio della forza attribuito agli apparati dello Stato, non importa se fascista, era venuto meno, il ricorso sistematico alla forza come surrogato della lotta politica era il vero punto critico che rendeva la lotta per la Liberazione del nostro paese anche una guerra civile. Anche ma non solo. Bisogna intendersi su tale concetto, al riguardo. Perché altrimenti si rischia lo sbracamento morale, prima ancora che storico. Ci sono, al riguardo, alcuni punti del libro di Luzzatto che convincono assai poco. Il primo di essi è la passiva accettazione dell’approccio di Giampaolo Pansa alla storia di quei difficilissimi mesi. La fortuna pubblicistica dei pamphlet di quest’ultimo è inversamente proporzionale non tanto ad un rigore storiografico che volutamente gli difetta – trattandosi di una scelta dell’autore – bensì all’attenzione per tutti i dati di contesto. Pansa prende in mano una parte dei morti di allora, li brandisce a mo’ di monito e ci costruisce sopra un teorema, quello della “guerra civile” in quanto fatto intenzionale, alla quale sarebbe succeduta la guerra rivoluzionaria per instaurare un nuovo potere totalitario. La prova starebbe nel fatto stesso che i morti per parte fascista, durante e soprattutto dopo il 25 aprile, con il sovrappiù di ferocia che distinse i regolamenti di conti in certi aree sensibili, come in Emilia Romagna, in Lombardia o al cosiddetto «confine orientale» (dove le ferite del 1919-1922 erano più che mai aperte), sarebbero derivati da un progetto politico per il quale l’annientamento fisico del fascismo repubblicano precedeva quello della borghesia italiana. Si tratta di una presa di posizione che non ha nessun fondamento. Se il revisionismo si riduce a questa accezione, priva di qualsiasi pudore storico, allora c’è ben poco spazio per qualsivoglia discussione, trattandosi, per inciso, delle stesse tesi di matrice neofascista. Sergio Luzzatto non fa necessariamente sue tali conclusioni ma, in alcuni passaggi del testo, si confronta con Pansa riconoscendogli acriticamente meriti che non ha. Non di meno, in un tale quadro di significati fallaci, poiché allusivamente ideologici, il rischio che lo storico corre, e fa correre al suo lettore, è quello di scambiare il pudore di Levi per reticenza. Facendolo imbarcare in una sorta di compagnia di giro, quella dei “partigiani comunisti”, come tali per definizione cattivi, e quindi omicidi, che sembra offrire una linearità di interpretazione per fatti che, invece, sono discontinui. E la cui natura e ragione riposa proprio in tali discontinuità: improvvisazione, mancanza di informazioni di base, scarsa conoscenza del territorio, sentimenti altalenanti tra la popolazione circostante, difetto di organizzazione e di armamento così come tante altre cose erano tra gli aspetti prevalenti del partigianato, soprattutto quello dei primi tempi. Il coordinamento successivo non avrebbe risolto antagonismi di idee e di interessi, molto spesso spiccioli e a volte anche un po’ meschini. La necessità di una lettura antiretorica (già ce l’avevano vivacemente argomentata autori come Italo Calvino, Beppe Fenoglio, Luigi Meneghello, Renata Viganò), impostata sulla scorta di un approccio disincantato e storicizzante, si perde qui dietro la rilettura rovesciata del senso del passato. È un peccato perché la ricostruzione che Luzzatto fa è invece molto interessante, degna per l’appunto di spunti di riflessione. Come i “partigia” di allora iniziavano a conoscere la tortuosità delle strade sterrate e dei sentieri che dovevano percorrere per affrontare i loro nemici, così lo storico genovese ci invita ad affrontare il lavoro sui trascorsi muovendosi attraverso le mappe incerte del ricordo e dei frammenti della memoria. Alcuni sui spunti sono quindi utili e gliene si deve dare atto. Dopo di che vengono da pensare due cose, una nobile o comunque legittima, e l’altra un po’ meno. La prima è che Sergio Luzzatto abbia voluto fare i conti, a modo suo, con una percorso culturale nel quale è cresciuto, solidamente antifascista (e che non ripudia) ma che sempre più spesso vive come insufficiente. Nel qual caso va detto che non è certo l’unico. La seconda è che dietro il sensazionalismo tirato per i capelli (la stampa per un editore di cassetta, il ricorso ad un agente letterario, le manchette che accompagnano il libro e la polvere di “dibattito” che si è da subito sollevata) ci sia anche un’operazione commerciale piuttosto disinvolta. La qual cosa non è dato sapere se si consumi con l’assenso dell’autore ma di certo si alimenta dei suoi dubbi, tramutandoli invece in certezze di segno ambiguo.

Claudio Vercelli

(28 aprile 2013)