In cornice – Esploratori e icone

Il tragico episodio degli esploratori che tornano dalla terra di Israele e invitano il popolo a non entrarvi – riportato nella parashà dello scorso shabbat,- ha invece avuto fortuna nell’arte ebraica e israeliana. Non come simbolo negativo di distacco dalla Terra di Israele, o di tradimento, o di paura etc.; piuttosto come sinonimo della ricchezza di Israele come “terra del latte e del miele”, concetto contrario a quanto sostennero la maggior parte degli esploratori (dieci contro due). L’immagine dei due uomini stilizzati che portano sulle spalle un’asta a cui è appeso un enorme tralcio di vite, è diffusa nelle opere dei primi sionisti: della scuola di Bezalel, al logo del Ministero del Turismo di Israele, ai vini Karmel. Come è possibile? La spiegazione sarebbe più semplice se si trattasse di una simbologia definita dai sionisti e poi evolutasi in Israele: potremmo dire che rappresenta il riscatto del nuovo ebreo rispetto alla storia di paura millenaria, dell’uomo che ha scelto di tornare in Israele con un’opera tutta umana e poco divina (così come sostenevano gran parte dei sionisti); si tratterebbe cioè di un capovolgimento in chiave laica della storia degli esploratori. Oppure potremmo dire che i sionisti si sentivano eredi di Calev e Yehoshua e non delle altre tribù diasporiche che si sono poi assimilate in Babilonia. A riprova della forza del connubio due esploratori-Israele, alcuni artisti israeliani contemporanei hanno voluto distorcere questa simbologia per dimostrare le storture e la decadenza del sionismo (si pensi all’enorme tralcio di vite di Michal Shamir esposto a Berlino nel 2005, le opere di Israel Rabinowitz come “Gfanim al parashat haderekh” etc.). Il fatto, però, è che i due uomini e il tralcio di vite si trovano in opere antiche di judaica: in una lampada a olio del IV secolo e.v., in illustrazioni e piatti vari europei del Seicento e Settecento, in tessuti ricamati di Mulhouse del 1799 etc. Qui il sionismo non c’entra. E allora come spiegare l’uso di un’immagine negativa in senso positivo? L’argomento andrebbe analizzato con attenzione, ma ecco una ipotesi personale: l’immagine è molto efficace in sé, evoca in modo immediato la ricchezza della terra di Israele, un tema attraente nella diaspora. L’immagine, data la sua valenza estetica, è stata staccata dal contesto e ha perso rapporto con il testo scritto da cui deriva: nessuno più si cura di capire da dove origini. Piace, semplicemente, e così si è diffusa. Un po’ di sano edonismo ebraico.

Daniele Liberanome, critico d’arte

(3 giugno 2013)