Il fermento in Turchia

Reduce da un breve ma intenso soggiorno accademico a Istanbul, non posso fare a meno di esternare la forte impressione che mi ha suscitato l’imponente fermento di protesta e insofferenza che anima, in questo particolare momento storico, così larga parte del popolo turco. Ho parlato a lungo con molti amici e colleghi turchi, e ho ascoltato dalla loro viva voce le ragioni di un’insofferenza che coinvolge individui dei più disparati orientamenti politici, e che – a dispetto delle violente invettive del premier Erdogan – non mostra di avere alcunché di sovversivo o estremista, così come assolutamente civile e composta mi è apparsa la mobilitazione di piazza Taksim, con decine di migliaia di persone (per lo più giovani, ma non solo) assemblate in un tripudio di suoni, colori, bandiere, senza alcun accenno di violenza. Quando prendono corpo siffatti movimenti popolari, pur intrecciandosi e sovrapponendosi diverse motivazioni individuali, alla base è sempre riscontrabile un’idea di fondo, un’esigenza comune in grado di unire la gente, e di metterla in movimento. In questo caso, la motivazione è particolarmente chiara, ed è il rifiuto di quella che appare un’inarrestabile deriva della società turca – voluta dall’attuale partito al potere, dalle autorità religiose e da parte della popolazione – verso un modello di stato di tipo teocratico, la resistenza verso la pesante, crescente, sempre più invasiva e capillare presenza della religione nella sfera civile, con una miriade di prescrizioni, ammonimenti e divieti. “A meno che non debba guidare l’auto – mi ha detto un collega -, non deve essere lo stato a decidere quando e dove posso bere una birra”. Ed è proprio questo, invece, che, in molti, pretenderebbero, in nome della religione. Quando si parla di Islam, in Occidente, il primo problema che sembra porsi è quello della sua maggiore o minore ‘moderazione’. L’Islam ‘moderato’ sarebbe quello buono, e il fondamentalista quello cattivo, cosicché, nel caso di specie, la questione sorgerebbe per un’involuzione in senso radicale di un partito islamico che si era invece presentato, inizialmente, come moderato. Ma la vera questione, a mio avviso, è un’altra, molto semplice, ossia quella della tutela, dovunque, accanto alla sacrosanta libertà “di” religione, anche dell’altrettanto sacrosanta libertà “dalla” religione. E la conta dei numeri, su questo piano, mi appare del tutto inutile. Non mi interessa minimamente sapere se quelli di piazza Taksim rappresentino la maggioranza della popolazione, o se la maggioranza – cosa molto probabile – sia invece di quelli che restano a casa, e che sostengono l’attuale governo. Quand’anche ottanta milioni di turchi fossero d’accordo nell’impedire, in nome della religione, a un unico cittadino di bersi in pace la sua birra, mi sembrerebbe comunque naturale, e doveroso, stare al fianco dell’unico, trasgressivo ‘dissidente’.

Francesco Lucrezi, storico

(12 giugno 2013)