Risorse per l’etica sociale
“Etica ebraica e giustizia sociale. Una guida per il XXI secolo”. Questo il titolo che il rabbino Shmuly Yanklowitz ha scelto per il suo libro dedicato al tema dei valori della tradizione ebraica nei confronti della collettività, nel mondo delle relazioni economiche. Un ambito ricchissimo di spunti, come testimonia l’indice del volume, in cui si spazia dall’assistenza sanitaria alla globalizzazione, dal consumismo alla filantropia, passando per la responsabilità personale, i diritti delle donne, il rispetto per il lavoratore, in azienda come fra le mura domestiche. D’altronde a questi temi rav Shmuly, che è stato incluso nella lista dei 50 rabbini più influenti d’America da Newsweek, ha dedicato la vita, fondando l’organizzazione Uri L’Tzedek’s. Orthodox social justice. “Un’organizzazione guidata dai valori della Torah e dedicata a combattere la sofferenza e l’oppressione. Attraverso l’educazione collettiva e lo sviluppo di leadership e di azione, Uri L’Tzedek si occupa di creare dibattito e inspirazione, e di rendere la comunità ebraica capace di rendere il mondo più giusto” secondo la descrizione con cui si presenta al pubblico. Laurea di primo livello all’Università del Texas, master in Leadership e psicologia ad Harvard e poi in Filosofia ebraica alla Yeshiva University di New York, rav Shmuly, dopo aver pubblicato il libro nel 2012, ha continuato a scrivere, approfondendo le tematiche più diverse. “Fino al 1865, la maggior parte degli americani consumavano cotone, tabacco, zucchero, merci varie, prodotte dal lavoro degli schiavi. A rifiutarsi di comprarli erano pochi e determinati abolizionisti. Oggi ci troviamo di fronte a un problema simile, visto che molto di ciò che acquistiamo è fabbricato attraverso lo sfruttamento di bambini o di manodopera che lavora in condizioni disumane, con paghe al di sotto del livello di sussistenza, e nessun rispetto per l’ambiente – scrive per esempio in un articolo sul Times of Israel – Fortunatamente abbiamo a disposizione una soluzione molto migliore del mero boicottaggio: possiamo insistere nel comprare i prodotti del mercato equo e solidale”, citando a supporto della sua tesi, le parole di Rambam “E’ proibito imbrogliare le persone nel comprare e nel vendere” (Hilchot Mechirah 18:1). L’- Halakhah, spiega ancora il rabbino, richiede infatti che nel commercio vengano rispettati i diritti di tutte le parti in causa, del consumatore, del venditore, ma anche del lavoratore. Su questi principi è basato un altro progetto fondamentale della Uri L’Tzedek’s, la certificazione Tav HaYosher, sigillo etico. Una certificazione che viene assegnata a quei ristoranti kasher che rispettano tre principi, correttezza (i lavoratori devono essere ricevere almeno il minimo sindacale), il diritto a un orario di lavoro equo, al pagamento degli straordinari, e a godere delle giornate di riposo e delle pause previste dalla legge, il diritto a un ambiente di lavoro sano e sicuro, e privo di discriminazioni. Perché, è sottolineato, non è sufficiente servire cibo che rispetta i dettami delle regole alimentari, per essere considerati kosher. “Non opprimere lo straniero, tu sai cosa si prova a essere straniero, perché tu stesso fosti straniero in terra d’Egitto” (Esodo 22:20) è un altro principio della tradizione ebraica che rav Yanklowitz cita spesso nei suoi editoriali, affrontando il tema dell’immigrazione. In un lungo intervento sul Jewish Journal, ricorda che “la Torah pone lo straniero sotto la speciale protezione della legge”, citando rav Samson Raphael Hirsch, e aggiunge che “non bisogna dimenticare neanche che la Torah ci insegna che siamo tutti stranieri, perché la proprietà perpetua della terra è solo di D-o, noi la possiamo considerare semplicemente in prestito”. Shmuly lancia infine un messaggio forte: “Dobbiamo lavorare per assicurare che i migranti privi di documenti siano trattati in modo giusto nelle nostre comunità, nei nostri ristoranti, nei nostri quartieri. Oggi è tempo che la comunità ebraica americana alzi la voce e si occupi della situazione degli stranieri in mezzo a noi. Solo così, anche se altri si riveleranno complici della negligenza e della marginalizzazione verso i migranti clandestini, potremo almeno dire che le nostre mani non hanno versato questo sangue”. Sul suo blog sull’Huffington Post, rav Shmuly ha di recente anche bacchettato la politica delle false promesse, ricordando i dettami della religione ebraica circa la proibizione dei giuramenti vani (shevuat shav), che comprende il divieto di giurare ciò che è palesemente vero, ciò che è palesemente falso, di giurare di infrangere un comandamento, e infine di giurare l’impossibile. Ed è proprio a partire da quest’ultima previsione che il direttore di Uri L’Tzedek’s spiega come quando un politico, ma anche un operatore finanziario, promette all’elettore, o al cliente, meraviglie irrealizzabili, compie una grave violazione etica. “Sono in tanti a promettere l’impossibile per venire eletti oppure fare affari. Tuttavia, noi dobbiamo chiederci se quella promessa è quanto meno plausibile e se invece merita di essere catalogata come shevuat shav. Un mercato e un elettorato informati, insieme all’obbligo di rendere conto delle promesse mantenute o non mantenute, rappresentano uno strumento per una società più giusta. La Torah ci insegna a non fomentare pubblicamente false aspettative per convenienza personale – conclude rav Yanklowitz – Dovremmo prendere questa lezione molto a cuore anche nelle nostre vite e alzare l’asticella del dibattito pubblico”.
Pagine Ebraiche, giugno 2013
(16 giugno 2013)