Il viaggio più lungo a Gerusalemme

Tra le pellicole in concorso al Festival Internazionale del Cinema di Gerusalemme (4-13 luglio), il documentario ‘Il viaggio più lungo’ del regista Ruggero Gabbai (testi di Marcello Pezzetti e Liliana Picciotto) si prepara ad essere proposto al grande pubblico israeliano. Ieri la presentazione – in forma privata – a stampa e giuria, domani una prima proiezione ufficiale. Sull’ultimo numero di Pagine Ebraiche in distribuzione la storica del Cdec ci spiega intanto perché raccontare e rendere giustizia agli ebrei di Rodi.

Perché raccontare, e rendere giustizia, agli ebrei di Rodi

Nel 1938, l’Italia divenne un paese a regime antisemita ed estese al suo possedimento delle Isole Egee o Dodecaneso (= dodici isole), occupate dal 1912 e strappate definitivamente alla Turchia con il Trattato di Losanna del 1923 (applicato nel 1924), la legge antiebraica fascista, compresa la schedatura coattiva e speciale nei libri di stato civile degli ebrei. Nel febbraio del 1939, come già era avvenuto nella Penisola, il governatore del Dodecaneso, con un censimento speciale, fece schedare tutta la comunità, che contava allora circa 2mila persone, che furono colpite da leggi di restrizione dei diritti civili e delle libertà individuali: espulsione dalle scuole pubbliche di scolari, studenti e insegnanti, licenziamenti dagli uffici pubblici, vendita forzata delle proprietà eccedenti un certo limite dettato dalla legge, obbligo di apertura degli esercizi commerciali il sabato. Il “Messaggero di Rodi” iniziò a pubblicare gli stessi articoli offensivi e demonizzanti verso gli ebrei che comparivano sulla stampa della madre-patria, importando così una ignominiosa campagna antiebraica: il là fu dato il 5 settembre 1938 con un articolo di fondo dall’eloquente titolo: “All’inferno tutti gli ebrei”. Gli ebrei locali, come già quelli italiani, furono ridotti a cittadini di seconda classe. L’11 settembre del 1943 anche il Dodecaneso fu invaso dalle armate tedesche, come, tre giorni prima, la Penisola italiana. L’esercito italiano di stanza nelle isole, benché preponderante per numero, mal organizzato e privo di ordini dall’alto, non riuscì ad opporsi all’occupante e fu disarmato, i militari deportati in Germania o morti durante due gravi incidenti di mare. L’amministrazione civile locale rimase italiana. Dopo nove mesi, l’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA), incaricato di gestire la persecuzione antiebraica in ogni paese occupato, affrontò la questione degli ebrei locali, estendendo con folle determinazione, a migliaia di chilometri di distanza, la sua politica della “soluzione finale”. Il lungo periodo di calma indusse negli ebrei un letale, falso senso di sicurezza. Il 13 luglio 1944 il comando germanico ordinò agli ebrei di non muoversi dalla città di Rodi e dai villaggi circostanti dove erano sfollati a causa dei bombardamenti navali alleati. Il 18 prescrisse che ogni ebreo maschio al di sopra dei 16 anni dovesse presentarsi al Comando dell’Aviazione italiana, nella parte nuova della città, con carte di identità e permessi di lavoro. Dopo aver riunito con l’inganno gli uomini senza lasciarli più uscire, toccò alle donne e ai bambini, che furono invitati a presentarsi entro le 24 ore successive con vettovaglie e beni mobili “per riunirsi ai padri e ai fratelli”. Il 20 luglio 1944 tutta la comunità si trovava nelle mani tedesche, senza poter uscire dall’improvvisata prigione. Solo una cinquantina di ebrei, di cittadinanza neutrale turca, furono rilasciati dietro richiesta del console turco, che ne aveva facoltà, dati i rapporti diplomatici tra Turchia e Germania. Il 23 luglio mattino, la pacifica e ingenua comunità ebraica, incolonnata per cinque, obbligata a tenere gli occhi a terra, carica di fagotti e valigie, fu scortata fuori dal Comando dell’aviazione e fatta scendere lungo il vialone principale (oggi circonvallazione Demokratias) reso deserto da un allarme fatto suonare ad arte. Al porto commerciale sostavano in attesa tre imbarcazioni da trasporto con le stive aperte, per terra paglia sporca di escrementi animali, nel mezzo bidoni di acqua dolce. In quello stesso giorno la presenza centenaria della comunità ebraica, giunta nell’Isola di Rodi fin dai tempi della cacciata dalla Spagna, ebbe fine. La traversata da Rodi al Pireo fu tragica. Secondo un documento della capitaneria di porto, messomi gentilmente a disposizione da Marcello Pezzetti, il mare per alcuni giorni fu grosso. Sotto coperta il caldo era soffocante, non c’erano a disposizione servizi igienici, nessuna possibilità di mantenere l’igiene personale, il malessere prese la maggior parte dei prigionieri. Una decina di persone morirono nella traversata, i loro corpi buttati in mare. Dopo molte ore, le chiatte giunsero all’Isola di Kos dove una quarta si unì alle prime, con gli ebrei ivi arrestati. Il terribile viaggio per mare terminò il 31 luglio 1944. I prigionieri furono portati in camion alla prigione di Haidari ad Atene dove furono selvaggiamente interrogati e palpati alla ricerca di nascondigli corporei di monete o gioielli. Altri morirono durante la permanenza in quella prigione, perché privi di medicinali o perché bastonati a sangue, come accadde a Michele Menascè di 76 anni, nonno di quella Esther Menascè, professoressa di letteratura inglese all’Università degli Studi di MIlano, da sempre instancabile testimone e storica della comunità ebraica di Rodi (suoi sono gli importanti libri Gli ebrei a Rodi. Storia di un’antica comunità annientata dai nazisti, Guerini editore e Buio nell’isola del sole. Rodi 1943- 1945, Giuntina editore). Il 3 agosto il gruppo fu caricato su carri ferroviari piombati e spedito alla volta del campo di sterminio di Auschwitz, dove arrivò il 16 agosto 1944. Tenerissimo è il passaggio del film Il viaggio più lungo. Rodi-Auschwitz, diretto magistralmente da Ruggero Gabbai – di cui io stessa per il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea- Cdec e Marcello Pezzetti per il Museo della Shoah di Roma siamo gli autori – dove Sami Modiano dice che, prima di allora, non aveva mai visto un treno, salvo che al cinema. Il suo primo contatto fu con un treno merci che portava la sua comunità alla morte! Dopo l’immediata selezione, furono mandate alle camere a gas più di mille persone. Della comunità ebraica di Rodi rimarranno vive, dopo la fine del conflitto, 178 persone. Proprio in questi giorni, oltre al film Il viaggio più lungo, già presentato con successo a New York, a Roma (più di 400 spettatori), a Milano (più di 800 spettatori) e prossimamente al festival internazionale di Gerusalemme, escono i risultati della ricerca sui nomi dei deportati dalle Isole Egee. La ricerca è stata avviata dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea qualche anno fa e generosamente finanziata da Claims Conference. Lo studio è stato particolarmente difficoltoso a causa delle frequenti omonimie dei nomi di famiglia e dei nipoti che hanno lo stesso nome dei nonni. Già ne Il libro della memoria, basandomi sull’ottimo primo elenco, di Hizkià Franco, salvatosi fortunosamente in barca alla volta della Turchia, avevo stilato un secondo elenco, migliorato con le nuove testimonianze raccolte. Franco, che era stato un notabile della comunità, agli inizi degli anni Cinquanta aveva stilato un elenco con i nomi che ricordava: non erano ovviamente tutti, né fu in grado di dire le età dei deportati. Ora, con una missione speciale nell’isola, effettuata assieme al professor Aurelio Ascoli, sono state scoperte nuove fonti documentarie: i registri di nascita, morte, matrimonio tenuti dall’amministrazione italiana dell’Egeo tra il 1929 e il 1944; il censimento fascista a cui accennavo sopra; i fogli di famiglia scritti in ladino (traslitterati in italiano da un funzionario) degli iscritti alla comunità ebraica; i nomi delle lapidi del cimitero (per essere sicuri di non considerare deportate persone già morte). Tutte queste fonti sono state riprodotte (molte a mano) e riportate in Italia, dove sono state studiate, compulsate, controllate con il Central Data Base of the Shoah Victims di Yad Vashem, e con il lavoro di elencazione appena terminato di Jacqueline e Myriam Benatar in Si je t’oublie, Rhodes…Mèmorial de la Communauté juive de Rhodes de 1939 à 1945, basato peraltro solo su una parte dei documenti da noi esaminati, e rese inequivocabili grazie al lavoro di controllo e di interpretazione della collaboratrice del Cdec Alberta Bezzan. Le persone finora identificate, trascinate ad Auschwitz dall’isola di Rodi e dall’isola di Kos, sono 1815. Non si è riusciti a raggiungere la certezza dell’identità per una cinquantina di casi. La comunità di Rodi, nel luglio del 1944 è stata distrutta per sempre, rivive qua e là nel mondo ad opera dei figli di coloro che lasciarono l’isola prima dei tragici avvenimenti per andare a cercare fortuna nelle Americhe o in Africa. Una grande famiglia di sopravissuti e di persone, legata indissolubilmente ad essa per affetto e per passione, come ci sentiamo ora anche noi.

Liliana Picciotto storica, Fondazione Cdec

(10 luglio 2013)