Jill Abramson: “L’Etica fa scoop”
“I cried a bit”. “Ho pianto un po’”. Incontrando Jill Abramson, la giornalista d’acciaio capace di diventare la prima donna a dirigere il più prestigioso quotidiano del mondo, il New York Times, tutto ci si aspetterebbe, tranne che di sentirla parlare di lacrime. Jill però sa stupire. Indossa una sciarpa rosso fuoco che accende il suo look altrimenti severo e accoglie l’interlocutore con un sorriso che ottiene il medesimo effetto sul suo volto. Intercettata all’inizio del convegno Crescere tra le righe organizzato dall’Osservatorio Giovani- Editori, seduta tranquillamente in prima fila con il marito Henry, prima di venire ufficialmente presentata al pubblico e costantemente attorniata dalla folla di giornalisti e personalità presenti, chiacchiera volentieri, spaziando dal futuro del giornalismo alle sue esperienze di vita personali. Quando poi sale sul palco per essere intervistata dal giornalista del Corriere della Sera Beppe Severgnini, in uno degli interventi conclusivi del convegno, rivela senza scomporsi troppo il suo momento di debolezza nell’apprendere del durissimo attacco sferrato contro di lei dal quotidiano Politico che, fondato nel 2007, è ormai un punto di riferimento del panorama editoriale americano. Nell’articolo firmato da Dylan Byers la scorsa primavera, Abramson era stata descritta come “diffusa fonte di frustrazione e ansia in redazione, testarda, condiscendente, inadatta al lavoro di squadra”, con tanto di citazione delle voci di una dozzina di reporter del Times, rigorosamente anonimi. “Ero sola, di notte, quando lessi l’articolo – ricorda – Piansi un po’”. Ma poi la tempra di ferro torna a prendere il sopravvento. “Certo, gli attacchi fanno parte del gioco. Comunque qualche settimana dopo sono stata davvero soddisfatta di annunciare che il New York Times aveva ingaggiato il miglior reporter di Politico, Jonathan Martin. È stata un po’ la mia vendetta”. (il ritratto di Jill Abramson è di Giorgio Albertini)
Jill Abramson, giovani, e giornalismo. Un mestiere che continua a esercitare un profondo fascino, ma rispetto al passato, la strada per intraprenderlo sembra tutta in salita. Oggi pare che il mondo dell’editoria viva la crisi peggiore della sua storia. I giornali continuano a tagliare posti di lavoro, molti addirittura chiudono. Cosa consiglierebbe a un ragazzo che vuole fare il giornalista? Esiste ancora lo spazio per questo sogno?
Ai ragazzi che vogliono fare i giornalisti io dico: “Seguite la vostra passione”. È ciò che ripetevo sempre ai miei studenti del corso di giornalismo a Yale. È importante ricordare che le nuove generazioni hanno accesso a esperienze diverse da quelle delle generazioni precedenti. Se i giornali non riescono a capirlo, se non si rendono conto della prospettiva originale di cui sono portatori e protagonisti i giovani, e rinunciano ad averli nelle proprie redazioni, allora sì che rischiano di morire, perché perdono la capacità di raccontare il mondo, capacità che invece i ventenni sanno man mano apportare, grazie alla propria visione in prima persona della realtà che cambia.
Ma la prima donna a dirigere il New York Times, necessariamente un modello per migliaia di ragazzi e soprattutto ragazze in tutto il mondo, da giovane sognava quello che poi sarebbe diventata? E come ci è riuscita?
Non avrei mai immaginato di arrivare a ricoprire questo incarico, assolutamente no! Però il giornalismo ha sempre rappresentato la mia grande passione. Sono una buona reporter. Sono brava nel costruire narrazioni. Soprattutto sono capace di scavare nelle storie, di andare fino in fondo. E poi nella mia carriera ho avuto l’opportunità di lavorare in entrambi i ruoli: quello di reporter, ma anche quello di responsabile del lavoro degli altri, caporedattore prima e direttore poi. Un’esperienza non scontata e che considero una grande fortuna. Amo il giornalismo perché ho sempre aspirato a fare qualcosa di buono per il mondo e valuto questo lavoro uno straordinario servizio al pubblico, un alto impegno civile, portatore di eccezionali valori, insiti nella grande responsabilità di immettere nella vita pubblica trasparenza, e conoscenza di notizie importanti.
Poco dopo la sua nomina al New York Times, raccontò quale cruciale impatto abbia avuto sulla sua formazione e sulla sua carriera la frequentazione della Ethical Culture Fieldston School, che propone nel suo curriculum corsi di etica obbligatori per gli studenti fin dalle classi elementari. Tra i momenti scolastici che citava in modo particolare c’è la riflessione che la sua insegnante vi spronò a fare a proposito del detto di un celebre pensatore italiano…
“Il fine giustifica i mezzi” di Niccolò Machiavelli. Sì, avevo otto anni e quella frase mi colpì molto. Oggi quelle parole rappresentano un interrogativo che pongo costantemente a me stessa nel mio lavoro di giornalista e soprattutto di direttore, una domanda cui sento di dover rispondere per esempio ogni volta che mi trovo a decidere se pubblicare una storia che, se da un lato penso che il pubblico abbia il diritto di conoscere, dall’altro potrebbe mettere in pericolo delle vite umane o la sicurezza nazionale. La verità è che non esiste una risposta univoca, ed è persino difficile trovare la certezza di agire nel modo giusto rispetto al singolo caso. Allo stesso tempo però, ritengo che una delle ragioni per cui nel mondo di oggi esistono così tanti problemi, è racchiusa proprio nel fatto che troppe persone considerano quella di Machiavelli un’affermazione che non va mai messa in discussione, senza chiedersi se effettivamente il fine che vogliono ottenere giustifichi i mezzi che sono disposti a utilizzare per raggiungerlo.
New York, non è solo la città in cui oggi lei vive, ma quella in cui è nata e cresciuta e che è famosa per amare profondamente. Una città che rappresenta anche uno dei più importanti centri di vita ebraica nel mondo. Come racconterebbe il rapporto fra New York e la sua comunità ebraica?
Senza ombra di dubbio un rapporto allo stesso tempo molto stretto e molto importante. Sono stati talmente tanti i cittadini di religione o di cultura ebraica che hanno avuto un impatto fondamentale sulla città, talmente numerosi coloro che sono stati capaci di offrirle contenuti, sul piano culturale, artistico, letterario, civile. E’ una presenza significativa.
New York è una città famosa per la sua dimensione multietnica e multiculturale. Esiste, anche nel mondo del giornalismo, un valore nell’essere capaci di esprimere la voce delle minoranze, di coloro che sono portatori di un background diversificato?
Credo che nell’appartenere a una minoranza sia insita una capacità fondamentale: la capacità di guardare la realtà e di interpretarla con occhi diversi. Che all’interno di una redazione è chiaramente un essenziale valore aggiunto. Per questo l’impiego di giornalisti con diversi retroterra culturali è un’idea vincente.
Sua sorella maggiore Jane frequentava tutte le settimane la scuola della sinagoga Temple Emanu-El nell’Upper East Side. Anche lei ha qualche ricordo speciale che la lega alle origini ebraiche della sua famiglia?
A essere sincera non particolarmente, perché i miei genitori non erano in alcun modo religiosi. Però oggi posso dire che questo cambierà presto, perché il più importante momento legato all’ebraismo della mia vita arriverà tra qualche settimana, il prossimo settembre, con il matrimonio di mia figlia Cornelia. Sono già preoccupatissima, non so nulla di quello che ci si aspetta io faccia! Ma per mia figlia, per lei non sono preoccupata. So che saprà cosa fare. Il suo futuro marito le ha insegnato molto. Lei sarà pronta.
Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche, agosto 2013
“Il mio momento ebraico più importante? A settembre, il matrimonio di mia figlia”
“Sono preoccupatissima perché non mi sento preparata. Ma per mia figlia no. So che lei e suo marito sanno bene cosa fare”. Tradisce un po’ di emozione Jill Abramson nell’annunciare il matrimonio sotto la chuppah della sua Cornelia, previsto per il prossimo settembre ad Amagansett, nella esclusiva località di villeggiatura degli Hamptons, la preferita dalla New York bene. Cornelia, 30 anni, ha gli stessi occhi chiari e penetranti della madre, e su twitter si definisce “chirurgo (specializzando), occasionale giornalista medica, ammiratrice delle grandi idee e incrollabile cheerleader della giustizia sociale e dell’imprenditorialità di New York”. Se questo non bastasse a rendere fiera la mamma, ecco la sua risposta in formato cinguettio a Dylan Byers, il giornalista di Politico che la scorsa primavera ha accusato Abramson di aver instaurato un regime di ansia e frustrazione alla redazione del più prestigioso quotidiano del mondo.
“Sì, intimorisce ed è difficile da decifrare. Ma sopra ogni cosa, la mia mamma è una rockstar e un’eroina per le ragazze ambiziose”. Medico è anche il fidanzato di Cornelia, Robert Goldstone, chirurgo al Massachusetts General Hospital dopo aver frequentato la Mount Sinai Icahn School of Medicine. Insomma una coppia da far andare in visibilio anche la più esigente yiddish mame (anche se Jill non ne rappresenta esattamente uno stereotipo). Tanto più che nella lista nozze, aperta nel lussuoso negozio di articoli per la casa Michael C. Fina sulla leggendaria Quinta Strada di New York, fra argenteria e fini ceramiche, fa capolino anche un pezzo che in casa Goldstone non potrà proprio mancare: un elegante piatto del Seder in porcellana Bernardaud, prezzo importante, ma non impossibile. Mazal tov!
Crescere tra le righe – Giornalisti e studenti a confronto
Il suo è stato uno degli interventi più attesi di Crescere tra le righe. Giovani, editori e istituzioni a confronto, annuale convegno organizzato dall’Osservatorio permanente Giovani-Editori diretto da Andrea Ceccherini. Jill Abramson, la prima donna a dirigere il New York Times in 160 anni di storia, ha conquistato i 250 liceali che sono stati invitati a partecipare all’evento ospitato nel contesto del suggestivo Borgo La Bagnaia (Siena) in rappresentanza di tutti coloro che nel corso dell’anno scolastico avevano preso parte al progetto Quotidiano in classe. Un progetto che, lanciato nel 2000, ha coinvolto alcuni fra i maggiori gruppi editoriali italiani e due milioni di studenti, per portare la lettura dei giornali nelle scuole, a fronte dell’impegno degli insegnanti di dedicarvi almeno un’ora di lezione alla settimana. All’edizione 2013 di Crescere fra le righe, giunto al suo ottavo anno, hanno preso parte tra gli altri anche il direttore del Wall Street Journal Gerard Baker e il giornalista Premio Pulitzer Peter Kann, i direttori di Corriere della Sera, Stampa, Sole 24 Ore, Ferruccio De Bortoli, Mario Calabresi e Roberto Napoletano, il presidente del gruppo editoriale Axel Springer Mathias Döpfner, il cardinal Gianfranco Ravasi, Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria e quello di Banca Monte dei Paschi di Siena Alessandro Profumo. Ma le parole di Jill Abramson, la sua prospettiva sulla sfida che il New York Times sta portando avanti forse più che qualsiasi giornale al mondo, la transizione verso un nuovo modello di informazione in cui il quotidiano tradizionale, e la sua qualità, si combinino allo sfruttamento delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie, sembrano affascinare particolarmente quei diciottenni cui il futuro del giornalismo sta chiaramente a cuore. A dispetto degli stereotipi, ma anche delle statistiche che rivelano come i quotidiani siano sempre meno letti, specie dai giovani. “Ascoltando in questi due giorni le domande che i ragazzi hanno posto ai relatori, direi che in Italia non vi dovete affatto preoccupare del futuro. Sono veramente impressionata” tiene a sottolineare anche Abramson. Cinquantanove anni, Jill ha assunto l’incarico di direttrice del New York Times nel settembre 2011. Laureata all’Università di Harvard in storia e letteratura, scrive per il Time tra il 1973 e il 1976, poi per l’American Lawyer e per il Legal Times. Nel 1988 approda alla redazione di Washington DC del Wall Street Journal. Il passaggio al New York Times avviene nel 1997, dapprima nella capitale, poi di nuovo nella sua New York, città dove è nata e cresciuta e che ama profondamente. Sotto la sua guida, il New York Times ha vinto quattro Pulitzer per l’anno 2012 tra cui il premio per lo Speciale “Snowfall” dedicato alla vicenda di alcuni sciatori intrappolati dopo una valanga, che ha rappresentato, come ha spiegato Abramson presentandolo nel corso del convegno “una narrazione multimediale” con l’offerta al lettore di nuovi tipi di interazione, non solo parole, fotografie e disegni usciti sulla carta stampata, ma una versione digitale con ulteriori gallerie di immagini, audiointerviste, mappe tridimensionali, grafici e simulazioni. “Nessuno di questi elementi era una novità di per sé, ciò che è stato rivoluzionario è stata la loro perfetta integrazione in un’unica storia, per dare al lettore un’esperienza completamente nuova, che penso rappresenti una via verso il futuro”.
Pagine Ebraiche, agosto 2013
(4 agosto 2013)