Fratelli e coltelli

claudiovercelliIl contrasto tra esercito egiziano e Fratelli musulmani si è trasformato, in queste ultime settimane, in una sanguinosa resa dei conti. Improbabile che i secondi l’abbiano vinta, rivelandosi, al riscontro dei fatti, privi di una strategia politica in grado di coalizzare intorno a sé un numero sufficiente di forze e di individui tale da fare tracollare l’altro grande potere, le forze armate. Tuttavia, l’eventuale sconfitta e messa al bando della loro organizzazione non ne comporterebbe la scomparsa, semmai rafforzando quella propensione all’azione clandestina che, da quando nacquero, quasi un secolo fa, ha sempre fatto da contraltare alle attività legali o svolte alla luce del sole. Peraltro gli uni, i politici, e gli altri, i militari, agiscono anche per interposti soggetti, entrando prepotentemente nel conflitto egiziano figure che aspirano all’egemonia politica regionale, soprattutto in assenza degli statunitensi, come l’Arabia Saudita e il Qatar. Una variabile da considerare, quindi, sarà l’intensità e la modulazione dell’attività repressiva da parte delle autorità cairote. Va da sé che l’esilio dorato (probabilmente temporaneo) concesso all’ex rais Hosni Mubarak, trasferito a Sharm el-Sheik in elicottero sotto la protezione delle telecamere riunite di mezzo mondo, sia da intendersi come un atto di rafforzamento della coalizione che si raccoglie intorno ai militari. Quasi a volere marcare l’inconciliabile differenza (e la naturale diffidenza) tra ciò che la Fratellanza rappresenterebbe, in Egitto e non solo, ovvero un insieme di soggetti estranei al potere che da sempre governa il paese, e quindi delegittimato a priori nel proporsi come forza di maggioranza, e la “vera” ossatura della nazione, costituita dalle sue forze armate. Peraltro, in questi anni, alla destra dei Fratelli musulmani, è andato costituendosi e rafforzandosi un pulviscolo di forze radicali, legate alla salafita, che cerca di mordere nella crisi che attraversa la grande organizzazione islamista, rafforzando gli assensi pro domo propria. Tra la Fratellanza e l’islamismo salafita c’è frequentemente una convergenza di vedute, quanto meno dal punto di vista ideologico (la sovranità assoluta della Sharia, la necessità di costituire uno Stato a fondamento teocratico, l’opportunismo nei confronti dello stato di diritto e del sistema parlamentare), ma sul piano della tattica, soprattutto dei modi per costruire il consenso intorno a sé e, ancora di più, sulla questione del potere e della sua conquista, sussistono differenze di fondo rilevanti. L’impazienza salafita, che porta i gruppi che ne fanno parte ad un’aggressività permanente, si scontra con il “pragmatismo” (va da sé che il termine abbia un valore eufemistico) e la logica del calcolo che preside all’attività della grande organizzazione egiziana. Il calcolo politico dell’Amministrazione Obama, che l’ha portata a riconoscere la legittimità dell’ascesa al governo degli uomini di Mohamed Morsi, si basa tuttavia su un equivoco, riposando nell’errata convinzione che questi, una volta assestatisi nei palazzi del potere, avrebbero represso o comunque emarginato le spinte maggiormente radicali rappresentate dai salafiti. Cosa che non ha fondamento, poiché i primi, anche per consolidare il proprio consenso nel paese, necessitano invece dell’interfaccia con i secondi, sia pure all’interno di un rapporto di scambio competitivo e di dialettica contrappositiva. L’atteggiamento su questioni fondamentali, che costituiscono banchi di prova ineludibili, come il rapporto con i cristiani copti, il ricorso alla violenza nei riguardi delle ambasciate straniere, lo statuto della donna, la tolleranza nei confronti del dissenso interno e dell’opinione delle componenti meno proclivi alle azioni dirette e prevaricatorie, l’ideologia anti-americana e ferocemente anti-israeliana, ma anche la tutela della democrazia e del pluralismo politico, rivela una convergenza di fatto (e di principio) tra i «fratelli» e i radicali. In generale, come collante di fondo degli uni e degli altri rimane l’idea per la quale l’Egitto e, con esso, il mondo musulmano, possono risolvere la gravissima crisi nella quale versano, quanto meno a fare dagli anni ottanta, solo reislamizzandosi integralmente. Cosa ciò comporti non è del tutto chiaro agli stessi islamisti. Ma è invece certo quali debbano essere gli obiettivi contro i quali rivolgersi, nel caso cairota in primis i nazionalisti nasseriani (ossia quel che residua d’essi, essendosi trasfuso nella società e nell’esercito) e i liberali. Il “moderatismo” dei Fratelli musulmani, allora, più che una scelta di fondo è il risultato delle grandi repressioni che subirono negli anni cinquanta e sessanta, quando Nasser cercò di sradicarne la diffusa presenza nel paese. Da quella prova di forza, di cui parla efficacemente Barry Rubin nel suo volume dedicato a «Islamic Fundamentalism in Egyptian Politics», derivò la consapevolezza che il cambiamento non poteva passare per il mero ricorso alla violenza. Il confronto tra l’esercito e i salafiti, con l’assassinio di Anwar el-Sadat nel 1981 e le insorgenze del decennio successivo (guidate da gruppi raccoltisi o filiatisi, sia pure tra di loro conflittualmente, dal Movimento al-Jama’a al-Islamiyya), un insieme di violenze duramente represse dalle autorità, rafforzarono la leadership della Fratellanza nel suo intendimento maggiormente legalitario. Va da sé che non si trattasse di un’opzione morale, tanto meno di un sopravvenuto convincimento politico, bensì di un astuto e razionale calcolo di opportunità. La fondata convinzione di base, non condivisa dai gruppi più estremisti, era che il regime, se obbligato ad uno scontro diretto, avrebbe comunque avuto la meglio. I salafiti, anch’essi forgiatisi militarmente in quella che è stata la madre di tutte le guerre, il confronto contro i sovietici in Afghanistan tra il 1979 e il 1989, erano peraltro divisi al loro interno non solo da una miriade di gruppi in competizione ma anche tra chi riteneva di dovere praticare prioritariamente un percorso di proselitismo, che portasse ad una islamizzazione dal basso, costruendo quindi una forza politica di dimensioni sempre più ampie, e chi riteneva che l’unica opzione fattibile fosse la lotta armata. La quale doveva esercitarsi contro cinque obiettivi: le autorità pubbliche, le forze armate, i cristiani copti, i turisti stranieri e gli eventuali «traditori» e apostati interni. Peraltro la composizione interna dei gruppi mutò radicalmente tra gli anni settanta e gli anni novanta, ringiovanendo sempre di più i ranghi interni, vedendo calare drasticamente il tasso di scolarizzazione dei militanti e contraddistinguendosi come organizzazioni con un accentuato radicamento rurale. La repressione governativa di fatto raggiunse i suoi obiettivi, ottenendo, nel 1999, una sorta di temporaneo cessate il fuoco, una moratoria nelle violenze. L’ingresso sulla scena di al-Qaeda, negli ultimi quindici anni, ha comportato alcuni mutamenti nell’atteggiamento di certi gruppi radicali. Il primo di essi è consistito nel considerare la lotta in Egitto come parte di un più generale processo di islamizzazione mondiale. Da ciò, ed è il secondo aspetto, è derivata l’intenzione di fare dell’«Occidente», ed in particolare degli Stati Uniti, l’obiettivo più rilevante dei propri attacchi. Da ultimo, è stata teorizzata la necessità di una sorta di lotta permanente, una rivoluzione globale e quindi persistente. L’insieme dei tre fattori ha tuttavia cozzato contra la necessità, per i salafiti, di mantenere un forte radicamento regionale e nazionale, temendo inoltre di essere espropriati da alleanze e coalizioni di interessi esterne alla politica egiziana. La predicazione di Ayman al-Zawahiri (che nel 1966, a soli sedici anni, aveva costituito al Cairo la prima cellula del gruppo al-Jihad), leader supremo di al-Qaeda dopo la morte di Osama Bin Laden, ha sempre contestato ai Fratelli musulmani la mancanza di una prospettiva di dichiarata rottura con il potere, ossia «rivoluzionaria», indicando inoltre in Washington e Gerusalemme i due veri obiettivi sui quali concentrare gli sforzi. Di fatto, questa dottrina ha comportato la sostanziale subalternità del network terroristico di radice wahhabita. Le acque sono venute a muoversi solo con il 2010 e non per volontà delle organizzazioni più estremistiche bensì per la scelta, esplicitata dalla leadership della Fratellanza, di dichiarare maturi i tempi per una sollevazione collettiva, avendo colto la fragilità del potere di Mubarak e il disimpegno americano. Da quel momento il quadro che è venuto configurandosi è quello che già conosciamo e che, allo stato attuale delle cose, rimane aperto a soluzioni tra di loro diverse. Assi improbabile, tuttavia, che si possa tornare alla situazione precedente alla deposizione del rais cairota.

Claudio Vercelli

(25 agosto 2013)