1938-2013. Trieste riafferma la Memoria – “Mussolini e le parole della vergogna”
La mattina del 18 settembre 1938 Benito Mussolini pronunciò un discorso pubblico qui a Trieste, in piazza Unità. Il dittatore si soffermò sull’italianità di Trieste, sull’aggravamento della questione dei Sudeti (il territorio cecoslovacco che Hitler voleva annettere alla ‘grande Germania’) e sulla nuova politica razzista e antisemita del regime (il 14 luglio era stato pubblicato il manifesto ideologico intitolato “Il fascismo e i problemi della razza”; l’1 e il 2 settembre erano stati varati i decreti-legge di espulsione degli stranieri ebrei e di arianizzazione della scuola). Nei giorni seguenti Mussolini pronunciò discorsi pubblici a Gorizia, Udine, Treviso, Padova, Vittorio Veneto, Belluno, Vicenza e Verona; in quasi tutte le città tornò a parlare della crisi cecoslovacca, ma non riprese più i temi della razza, dei neri e degli ebrei. Ampliando lo sguardo alle settimane precedenti e seguenti, possiamo riscontrare che egli disse brevi parole sulla razza a Forlì il 30 luglio e affrontò ampiamente la questione nel discorso riservato del 25 ottobre al Consiglio nazionale del Partito Nazionale Fascista. Quindi in quell’anno e su quei temi fu solo il 18 settembre a Trieste che si rivolse pubblicamente agli italiani e agli osservatori stranieri. Per questo fu un discorso importante. Se poi consideriamo che negli anni seguenti egli non trattò più il tema degli ebrei nei suoi comizi – neanche per comunicare la decisione del 1943 di arrestarli e consegnarli al deportatore nazista – allora questo suo intervento triestino deve essere definito non solo inconsueto, ma anche eccezionale.
Da tutto ciò deriva una prima osservazione di ordine comparativo: un “duce” poteva decidere e attuare prima il licenziamento e poi l’arresto degli israeliti senza doversi impegnare personalmente e ripetutamente in pubblico con pronunciamenti razzisti e antisemiti.
Perché scelse Trieste? Non abbiamo ancora reperito una risposta precisa. Possiamo però elencare quelli che furono i motivi indubbiamente principali: perché Trieste era la tappa più importante e maggiormente simbolica di quel viaggio; perché in quella città era più agevole ricevere un ascolto internazionale; perché – come vedremo – lui aveva urgenza di rilasciare alcune dichiarazioni; perché li vi era una comunità ebraica tra le maggiori d’Italia (la terza, dopo Roma e Milano); perché lì vi era una situazione particolare, sia relativamente agli ebrei, sia relativamente all’antisemitismo. Riguardo a quest’ultimo mi limito a ricordare che il 4 ottobre 1933 proprio il quotidiano di Mussolini “Il Popolo d’Italia” aveva denunciato che, in una città in cui essi erano il due per cento della popolazione (quindi appunto Trieste), detenevano “cariche, funzioni di comando e posti di controllo nella proporzione del cento per cento” e aveva invitato prefetto e segretario del partito a provvedere. Per quanto concerne gli ebrei e le persone che di ebraico avevano solo l’origine famigliare, va osservato che parte di essi aderiva al fascismo, compreso ad esempio il podestà Enrico Paolo Salem, che era figlio di matrimonio misto e che fu fatto dimettere proprio il 10 agosto 1938. Va qui rimarcato che, mentre la persecuzione degli ebrei antifascisti, o sionisti, o semplicemente religiosi, non creò particolari problemi nel partito fascista, quella degli ebrei fascisti fu più difficile da gestire. Inoltre nell’area giuliana vi era un consistente numero di ebrei irredentisti e impegnati nella lotta per l’italianità. I motivi quindi erano vari; a mio parere Mussolini li tenne tutti in considerazione (perché, nonostante ciò che in questi ultimi sessant’anni è stato scritto dai negazionisti del fascismo, il “duce” non era né un barzellettiere né un personaggio da operetta, bensì un politico molto abile; purtroppo).
Più avanti tornerò sul tema della tribuna internazionale. Però è bene segnalare subito che fu il regime stesso a informare la stampa straniera delle proprie intenzioni. L’11 settembre (ossia, sette giorni prima) “The Observer” anticipava che il “Signor Mussolini” avrebbe illustrato a Trieste i recenti provvedimenti antiebraici. Il dittatore quindi voleva un’udienza internazionale alle sue parole, e aveva preparato il messaggio da comunicare.
Ma andiamo alla parte del discorso dedicata al razzismo e all’antisemitismo. E vediamo cosa Mussolini disse e perché (tenendo presente che quel 18 settembre egli non parlò della persecuzione della cultura e delle organizzazioni degli slavi, persecuzione peraltro avviata già prima dello stesso avvento del fascismo). Iniziò affermando: “Nei riguardi della politica interna il problema di scottante attualità è quello razziale. Anche in questo campo noi adotteremo le soluzioni necessarie.” Va qui rilevato che razzismo e antiebraismo sono fenomeni distinti, che vengono a intrecciarsi quando l’antisemitismo ha carattere razzista (e nel luglio 1938 il fascismo aveva adottato appunto quest’ultimo, e più precisamente quello razzisticobiologico, secondo il quale la razza dei genitori determina automaticamente quella del figlio, indipendentemente dalle sue scelte religiose e identitarie).
Con le sue affermazioni, Mussolini si riferiva alla questione della razza in generale, ossia – come aveva precisato il manifesto razzista diramato il 14 luglio – all’appartenenza degli italiani al preteso ‘ceppo ariano’, distinto da quello semita e da quello camita. Si deve qui rilevare che quel documento teorico costituì un unicum nell’Europa dell’epoca: gli altri regimi razzisti e antisemiti del continente non elaborarono testi ideologici ufficiali per motivare la propria azione; dobbiamo quindi riconoscere che il “manifesto” fu un atto di originalità e creatività, tutto italico. Mussolini preannunciò nuove leggi su ebrei, neri e meticci, definendole “necessarie”, attributo che si estendeva automaticamente a quelle già varate.
Proseguì con: “Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito a imitazioni, o peggio, a suggestioni, sono dei poveri deficienti ai quali non sappiamo se dirigere il nostro disprezzo o la nostra pietà.” Qui il “duce” difendeva il suo personale impegno di elaborazione. E su questo specifico punto aveva davvero ragione: se fosse stato un semplice ‘ricopione’, non sarebbe stato il primo governante europeo a varare – nel 1937 – una legge dello stato centrale contro le convivenze miste bianco-nero in colonia, e non avrebbe varato l’1 e il 2 settembre 1938 dei provvedimenti contro gli stranieri ebrei e gli studenti ebrei più gravemente persecutori di quelli sino a quel giorno emanati da Berlino. La storiografia degli ultimi venti anni ha mostrato che la legislazione razzista del 1937-1938 costituiva il punto di arrivo di un processo maturato dentro il fascismo. Ciò detto, è giusto aggiungere che l’operato della Germania nazista aveva mostrato al continente che un Paese industrializzato, acculturato e progredito poteva revocare i diritti a una parte dei propri cittadini; le leggi berlinesi furono osservate con attenzione da chi sino ad allora riteneva impensabile giungere a stracciare financo la parità di condizione giuridica dei cittadini affermatasi nel continente tra il Settecento e l’Ottocento.
Ancora Mussolini: “Il problema razziale non è scoppiato all’improvviso come pensano coloro i quali sono abituati ai bruschi risvegli, perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni. È in relazione con la conquista dell’Impero; poiché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi, ma si tengono col prestigio. E per il prestigio occorre una chiara severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime”. Si deve qui rimarcare che noi italiani d’oggi sappiamo che in Etiopia gli italiani invasori impiegarono il gas, ma non siamo ancora riusciti a recuperare il senso etico di istituire un “giorno della memoria” per quella barbarie. Il riferimento mussoliniano all’Impero serviva soprattutto – a mio parere – a fornire una spiegazione semplice e orecchiabile al ‘perché ora?’; in realtà, come detto, il suo razzismo risaliva a molto prima. Interessante il suo riferimento alle “superiorità nettissime”: si pensi che, mentre la bozza del manifesto razzista si concludeva condannando le unioni con “razze biologicamente inferiori”, questa formula venne però espunta dal testo finale del documento, a mio parere perché si valutò che avrebbe danneggiato la politica fascista verso il Giappone e l’area arabo-musulmana. Ora invece Mussolini aveva concluso che quel concetto poteva essere comunicato esprimendo la superiorità propria invece che l’inferiorità altrui. Peraltro la nuova gerarchia razziale ben si omologava con quella sociale e politica già costruita dal fascismo; e dal 18 settembre la supremazia assoluta del “duce” fu anche un fatto di razza. Qui giunto, Mussolini abbandonò il tema generale e i neri, e si dedicò agli ebrei: “Il problema ebraico non è dunque che un aspetto di questo fenomeno. La nostra posizione è stata determinata da questi incontestabili dati di fatto. L’ebraismo mondiale è stato, durante 16 anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del Fascismo. In Italia la nostra politica ha determinato negli elementi semiti quella che si può oggi chiamare, si poteva chiamare una corsa vera e propria all’arrembaggio”. Intanto va ricordato che, dopo la frase sugli ebrei di tutto il mondo nemici del fascismo, egli fece una delle sue consuete pause e la folla triestina proruppe in una delle sue più consistenti ovazioni; perdurando la pausa, si ebbero dapprima alcune grida isolate incomprensibili e poi lo slogan collettivo ritmato «du-ce, du-ce» (ma come si fa – mi chiedo – a dubitare che esistette il consenso al fascismo e all’antisemitismo in crescita?). In complesso, le sue parole sul razzismo furono accolte da nove momenti di applauso od ovazione, talora con l’acclamazione del suo nome.
Tornando alle sue affermazioni, si devono notare alcuni aspetti. Le recenti leggi non vennero illustrate, bensì riassunte nella formula “la nostra posizione”. La responsabilità del loro varo non venne motivata con i principi razzisti, ma venne fatta ricadere sul comportamento degli ebrei stessi. D’altronde sempre e dovunque il razzista afferma di agire per difendersi: tanto le leggi naziste che quelle fasciste contengono nel titolo il termine “difesa” o “schutz”.
Infine anche qui il dittatore fornì delle motivazioni semplici e orecchiabili a un popolo che egli classificava superiormente ariano, ma considerava inferiormente bue: gli ebrei hanno sempre lottato o complottato contro il fascismo e l’Italia; gli ebrei hanno sempre conquistato troppi posti ai danni degli “altri italiani”. Di là dalla loro specifica formulazione, non si può evitare di notare che si tratta di due delle cantilene antisemite maggiormente diffuse degli ultimi due secoli, compresi i nostri giorni. Le frasi finali furono: “Tuttavia gli ebrei di cittadinanza italiana, i quali abbiano indiscutibili meriti militari o civili nei confronti dell’Italia e del Regime, troveranno comprensione e giustizia; quanto agli altri si seguirà nei loro confronti una politica di separazione. Alla fine il mondo dovrà forse stupirsi più della nostra generosità che del nostro rigore; a meno che i semiti di oltre frontiera e quelli dell’interno, e soprattutto i loro improvvisati e inattesi amici che da troppe cattedre li difendono, non ci costringano a mutare radicalmente cammino”. Di questo lungo brano posso evidenziare solo alcuni aspetti maggiormente salienti. Innanzitutto il fatto che egli non pronunciò i vocaboli antisemitismo o addirittura persecuzione, bensì l’apparentemente più lieve “separazione” (che comunque, in traduzione inglese, si legge apartheid). Poi che utilizzò i termini “comprensione e giustizia”, del tutto inusuali per chi sta varando e annunciando una persecuzione.
Riguardo al trattamento degli ebrei “con indiscutibili meriti” va tenuto conto che, proprio due-tre settimane prima, il capo del fascismo aveva modificato l’impostazione da dare alla persecuzione, abbandonando il criterio della limitazione della presenza degli ebrei nei singoli ambiti sociali sulla base della loro proporzione demografica complessiva (criterio che era alla base della legge tedesca sulla scuola e della recente legge ungherese sull’economia), e adottando quello della differenziazione tra ebrei italiani “con meriti”, altri ebrei italiani ed ebrei stranieri (criterio utilizzato in vario modo anche da Berlino e Budapest, nonché da Bucarest). Come si vede, tutte le legislazioni antiebraiche ebbero una fase iniziale, in cui i principi nuovi faticavano a scalzare quelli preesistenti; ad essa subentrò la fase della pienezza, che vide il progressivo annientamento di ogni criterio proporzionale o alleviamento. Anche in Italia la normativa poi varata nell’autunno 1938 ridusse a livelli infinitesimali l’alleviamento promesso a Trieste, il quale comunque non poteva che concernere esclusivamente una parte degli ebrei già adulti, cui veniva prospettato un ghetto dorato, destinato ad esaurirsi con la loro morte. Tuttavia ora interessa solo il fatto che Mussolini il 18 settembre prospettò questa discriminazione. La comunicazione era diretta ai triestini non ancora antisemiti, agli stranieri e ad alcuni interlocutori speciali.
Perché volle comunicarlo? Cos’era accaduto? Erano accadute due cose. Nei giorni precedenti alcune personalità si erano rivolte a lui chiedendo esenzioni per i propri protetti: tra esse, il re Vittorio Emanuele III per gli alti ufficiali, per i decorati e per il proprio dentista, il direttore della Normale di Pisa Giovanni Gentile per alcuni studiosi vicini a lui e alla sua casa editrice, il papa Pio XI per le persone nate da genitori ebrei e poi battezzatesi. Nessuno di loro aveva assunto una pubblica posizione di contestazione radicale della normativa persecutoria, peraltro tutte queste proposte di modifiche finivano per intaccarne il carattere razzistico- biologico. E Mussolini, per quanto contrario, non poteva ignorare la loro formulazione.
Il secondo fatto, inaspettato, era che aveva iniziato a profilarsi un boicottaggio economico contro l’Italia, potenzialmente simile a quello già in atto contro la Germania: ad esempio, il 2 settembre alla Borsa di frutta e verdura di Londra fu possibile collocare solo uno dei 27 lotti di limoni siciliani; anche il 6 settembre varie partite di pesche e limoni italiani non trovarono compratori, mentre gli ebrei egiziani minacciavano il boicottaggio delle compagnie di assicurazione e navigazione. Persino il papa il 7 settembre gli scrisse di temere che gli ebrei “di tutto il mondo” mettessero in atto “rappresaglie forse non insensibili all’Italia”. Mussolini ricevette questo messaggio solo il 10, ma già nei giorni precedenti si era preoccupato per le reazioni al proprio antisemitismo e sembra che sia stato lui stesso a scrivere sul “Giornale d’Italia” dell’8 settembre: “la sorte degli ebrei italiani è ancora in bilico, ma è certo che se gli ebrei dei due mondi vorranno avventurarsi in gesti inconsulti, la situazione degli ebrei italiani potrebbe divenire assai grave”. E’ possibile che sia stata proprio la segnalazione giuntagli dal papa il 10 a spingerlo a decidere di parlare pubblicamente sul tema (e a darne immediatamente preannuncio alla stampa straniera).
Riguardo a tutto ciò, va ancora considerato che nel discorso triestino le parole finali sui “semiti di oltre frontiera e dell’interno” si saldavano con quelle di denuncia dell’ebraismo mondiale tutto antifascista, facendo un tutt’uno con la formula “difesa della razza” già utilizzata sia nella legge sulla scuola, sia come testata della nuova rivista razzista e antisemita, e formando un complesso crogiolo nel quale si fondevano – tra l’altro – il disprezzo degli ebrei e dei neri, il vittimismo tipico dei razzisti e degli antisemiti, e la necessità di additare alle masse un nemico interno (la gente di razza inferiore e infida) per ri-galvanizzare un fascismo adagiato.
Fatte tutte queste osservazioni, la chiusa del discorso mussoliniano diviene chiarissima. Egli, mentre revocava di colpo agli ebrei parte dei loro diritti, sequestrava i diritti rimanenti e li utilizzava per ricattare i perseguitati. Fu un ricatto terribile: – Cessate, subito, ogni protesta! – disse loro in sostanza, – Che gli ebrei italiani con benemerenze accettino il loro specifico trattamento, se ne mostrino degni e non protestino né per esso né per quello riservato ai loro fratelli! Che questi ultimi accettino il proprio e non emettano una sola minuta lamentela! Che gli ebrei all’estero desistano immediatamente e per sempre dalle già avviate azioni di protesta, di boicottaggio culturale ed economico, di pressione sui rispettivi governi! Che non mi giunga più notizia di solidarietà, di fratellanza! Sta a voi ebrei italiani e stranieri farmi o no intraprendere i prossimi gradini della scala persecutoria.
Questo è ciò che il “duce” a Trieste comunicò. È appena il caso di ricordare che, mentre il boicottaggio economico non ebbe sviluppo, nelle settimane seguenti Mussolini varò una persecuzione antiebraica ben più rigida e più omogenea (cioè con gli alleviamenti ridotti veramente al minimo) di quanto prospettato il 18 settembre 1938 in piazza Unità a Trieste. Oltre che fascista, dittatore, razzista, antisemita e ricattatore, fu cioè anche bugiardo. Questa è la consapevolezza che possiamo avere di lui e di quel suo discorso.
Michele Sarfatti, direttore del CDEC (Pagine Ebraiche Ottobre 2013)
(17 settembre 2013)