Il Dio di Einstein e il D-o di Abramo
Negli ultimi mesi ci siamo soffermati più volte su quanto sia diffuso un uso improprio del Nome di Dio. La recente scoperta effettuata al Cern di Ginevra del bosone di Higgs, la cosiddetta particella di Dio, ne è la riprova. Non c’è dubbio che il grande clamore mediatico suscitato dalla scoperta sia dovuto anche a questo (ab)uso del Nome. Ma è proprio un abuso? Il primo a chiamare la particella di Higgs in questo modo fu il fisico americano Leon Lederman, premio Nobel per la fisica nel 1988, nel libro scritto nel 1993 insieme al giornalista Dick Teresi intitolato, appunto, The God Particle (tr. ital. La particella di Dio, Mondadori 1996). Che Lederman sia ebreo non è irrilevante. In più punti del libro compaiono espressioni yiddish e reminiscenze ebraiche. In un colloquio immaginario fra lui e Democrito (il primo a parlare di atomi), Lederman, descrivendo la costruzione del super-acceleratore che porterà alla scoperta di nuove particelle, afferma che esso sarà il più grande strumento scientifico costruito dai tempi delle piramidi, aggiungendo: “Non so chi abbia progettato le piramidi, ma i miei antenati hanno fatto tutto il lavoro!”. E subito appresso, dice a Democrito che la particella di Higgs contribuirà a spiegare “perché il mondo appare così complicato quando lei e io sappiamo che, nel profondo, è così semplice”, a cui Democrito aggiunge: “Come un tempio greco”, e Lederman replica: “O come una shul nel Bronx” (p. 63 dell’ed. it.). Shul è il termine yiddish per indicare la sinagoga, o meglio, la “scola”, come le scole romane o veneziane. E conoscendo le sinagoghe nostrane, non facciamo fatica a immaginarci il disordine apparente (o l’ordine nascosto) di una sinagoga di New York dove Lederman trascorse l’infanzia.
È Lederman stesso che spiega come mai ha denominato il bosone di Higgs in tale modo. Candidamente dice che la prima ragione è che “l’editore non avrebbe mai acconsentito a chiamarla «particella maledetta da Dio» [the goddamn particle], anche se si tratterebbe di un titolo più appropriato”, visto che per la sua natura elusiva, al limite della malvagità, comporta molte spese cercarne l’evidenza. L’altra ragione è più profonda e si collega con il racconto della torre di Babele (Genesi 11:1-9). Dopo aver citato l’intero brano biblico, in cui la Torah dice che D-o confuse il linguaggio degli uomini per aver osato ergersi troppo in alto, Lederman scrive: “Una volta, molte migliaia di anni fa, molto prima che fossero scritte queste parole, la natura parlava un solo linguaggio. La materia era ovunque la stessa, bella nella sua elegante, incandescente simmetria. Ma, con il passare dei millenni, essa si è trasformata, si è diffusa nell’universo in molte forme diverse, confondendo quelli di noi che vivono su questo comune pianeta in orbita a una mediocre stella”. E prosegue descrivendo l’alternarsi di periodi di comprensione razionale del mondo a quelli di totale confusione, fino agli ultimi decenni in cui si è finalmente giunti ad avere un modello che spiega la struttura della materia e dell’energia e il comportamento delle diverse forze, dai primi attimi di vita dell’universo dopo il Big Bang fino adesso. La tensione intellettuale fra gli studiosi della fisica delle particelle, scrive Lederman, è stata curiosamente simile a quella della generazione di Babele. “Stava andando tutto liscio, forse troppo liscio, quando siamo incappati in una stranezza, una forza apparentemente contraria presente nell’universo. Qualcosa che sembra schizzato fuori dallo spazio pervasivo in cui sono incorporati i nostri pianeti, stelle e galassie. Qualcosa che non possiamo ancora scoprire e che, si potrebbe dire, è stato messo lì per saggiare le nostre capacità e confonderci. Ci stavamo avvicinando troppo? C’è forse un suscettibile Grande Mago di Oz che manipola malevolmente i reperti? Il problema è se i fisici rimarranno disorientati da questo rompicapo o se, a differenza degli infelici Babilonesi, continueranno a costruire la Torre e, per dirla con Einstein, a «conoscere la mente di Dio»” (pp. 26-28).
Lederman conclude citando da uno pseudo Nuovissimo Testamento: “E in tutto l’universo vi era una moltitudine di linguaggi e di discorsi. E avvenne, nel loro vagare dalla parte di oriente, che gli uomini trovarono una pianura nel paese di Waxahachie [luogo nel Texas dove è stato costruito un super-acceleratore, g.d.s.], vi si stabilirono e si dissero l’un l’altro: «Orsù! Costruiamo a nostro vantaggio un collisore gigante le cui collisioni possano risalire all’inizio del tempo». Ed ebbero magneti superconduttori da far girare e protoni da frantumare. Ma il Signore discese per vedere l’acceleratore costruito dai figli dell’uomo. E il Signore disse: «Ecco che stanno cercando di rendere meno confusa la mia confusione». E il Signore sospirò e disse: «Orsù! Discendiamo e diamogli la particella di Dio, così che possano vedere la bellezza dell’universo che ho creato»” (p. 28).
Molti si sono chiesti se la scoperta del bosone di Higgs possa portare prove al racconto della creazione o piuttosto contraddirlo. È bene sgombrare il campo da qualsiasi dubbio. Non ci possono essere né conferme né contrasti. La Torah da una parte e la scienza dall’altra sono due tipi di conoscenza profondamente diversi. Per dirla come S.J. Gould, il grande biologo evoluzionista scomparso dieci anni fa (non a caso anche lui di famiglia ebraica e impegnato nel dibattito religione-scienza), si tratta di due Magisteri-Non-Sovrapposti (Gould, I pilastri del tempo. Sulla presunta inconciliabilità tra fede e scienza, il Saggiatore 2000). Due binari paralleli non potranno mai incontrarsi e quindi neanche scontrarsi. Questo approccio è l’unico che possa permettere un sensato e sereno confronto fede-scienza (ma personalmente non sono così sicuro che alcune intersecazioni, non degli incontri, siano del tutto impossibili). Pretendere che la Torah sia un libro di scienza e che il Signore Iddio, rivelandosi sul Monte Sinai, si sia comportato come un professore di fisica o di biologia è profondamente sbagliato e persino blasfemo, come disse Yeshayahu Leibowitz, il famoso filosofo e scienziato israeliano (oltre che grande studioso talmudico-rabbinico).
Se è così, tuttavia, perché molti fisici nominano Dio quando parlano dell’origine dell’universo e della struttura della materia? Il riferimento di Lederman alla frase di Einstein sulla “mente di Dio” ci mostra che il chiamare in causa il “Buon Dio” (o il “Grande Vecchio”, come si usava dire) non è solo una moda mediatica moderna, magari per far cassetta, ma ha illustri precedenti nel secolo precedente (per non parlare di Newton). L’espressione “Mente di Dio” è diventata il titolo di un libro di un altro famoso fisico teorico, Paul Davies, che nella sua prolifica carriera di scrittore scientifico ha scritto anche Dio e la Nuova Fisica (entrambi editi da Mondadori). E ancora, si veda il libro dell’astrofisico Mario Livio, Dio è un matematico (Rizzoli 2009; nel titolo originale inglese, però, c’è un punto interrogativo finale).
Il grande fisico teorico Stephen Hawking finisce il suo best-seller Dal Big Bang ai buchi neri (Rizzoli 1988) affermando che se riuscissimo ad avere una teoria completa della fisica “allora conosceremmo la mente di Dio”. In occasione dell’uscita del suo ultimo libro, Il Grande Disegno (Mondadori 2011), Hawking ha tuttavia affermato che chi volle vedere in quella frase un’apertura alla religione l’aveva male interpretata. Scienza e religione non sono conciliabili e “c’è una fondamentale differenza tra la religione, che è basata sull’autorità, e la scienza, che è basata su osservazione e ragionamento”. Cosa del resto abbastanza ovvia. Meno ovvia è la conclusione di Hawking: “E la scienza vincerà perché funziona”, che appare un po’ troppo positivista.
Tornando a Einstein, sono famose e iper-citate le parole che scrisse a partire dal 1926 a Max Born (premio Nobel per la fisica nel 1954), un illustre esponente della fisica quantistica alla quale lo stesso Einstein aveva contribuito all’inizio: “Il Grande Vecchio [Dio] non gioca a dadi col mondo”. E ancora: “Tu ritieni che Dio giochi a dadi col mondo; io credo invece che tutto ubbidisca a una legge, in un mondo di realtà obiettive che cerco di cogliere per via furiosamente speculativa […] Nemmeno il grande successo iniziale della teoria dei quanti riesce a convincermi che alla base di tutto vi sia la casualità, anche se so bene che i colleghi più giovani considerano quest’atteggiamento come un effetto di sclerosi. Un giorno si saprà quale di questi due atteggiamenti istintivi sarà stato quello giusto” (Einstein-Born, Scienza e vita. Lettere 1916-1955, Einaudi 1973, pp. 108-109, 176, v. anche pp. 186, 233). La discussione fra questi grandi fisici della prima metà del XX secolo verteva sull’interpretazione statistica dei fenomeni quantistici, che la maggioranza dei fisici accettava come valida mentre Einstein la considerava una descrizione incompleta e non definitiva. Il massimo antagonista di Einstein in questa discussione fu Niels Bohr (nel mondo talmudico delle yeshivot lo si chiamerebbe il suo bar-plugta), che si dice abbia pubblicamente replicato a Einstein in un congresso internazionale: “Smettila di dire a Dio cosa fare dei suoi dadi”. Altrove Einstein scrisse: “È difficile riuscire a dare un’occhiata alle carte di Dio. Ma non credo per un solo istante che Lui giochi a dadi…” (lettera a Cornel Lanczos del 1942, citata in Albert Einstein. Il lato umano, a cura di Helen Dukas e Banesh Hoffmann, Einaudi 1980, p. 63). Per molti fisici, come disse un altro grande scienziato, Wolfgang Pauli, questa discussione era puramente accademica, come discutere di quanti angeli possano trovare posto sulla punta di uno spillo (Einstein-Born, p. 259).
La frase più famosa di Einstein riferita a Dio è forse “sottile è il Signore, ma non malizioso”, che egli pronunciò a Princeton nel 1921 a commento di un certo esperimento sul “vento d’etere”. Queste parole di Einstein furono considerate talmente illuminanti del suo pensiero che gli fu chiesto il permesso di inscriverle sulla pietra di un caminetto dell’Università di Princeton (dove poi Einstein sarebbe andato a vivere, quando nel 1933 fuggì dalla Germania nazista). La stessa frase è diventata il titolo della migliore biografia scientifica scritta su di lui (Abraham Pais, «Sottile è il Signore…», Bollati Boringhieri 1986). Il senso della frase sarebbe che “la Natura nasconde il suo mistero perché è essenzialmente sublime, non perché ci inganni” (pp. 126-127 e 569) (per una vasta e autorevole raccolta di citazioni, vedi: The Ultimate Quotable Einstein, a cura di Alice Calaprice, Princeton University and The Hebrew University of Jerusalem, 2011).
Sembra che Einstein e altri fisici siano quasi ossessionati dalla Divinità. È bene però chiarire che il Dio di cui parla Einstein è ben diverso dal D-o (l’uso del trattino in questo caso non è casuale) di cui parla la Torah. Einstein non credeva in un Dio personale, che si interessa alla vita degli uomini, interviene nella storia, punisce i malvagi e prema i giusti. Ma non si professò mai ateo (e neanche panteista), e anzi smentiva chi lo definisse in tal modo. Alla domanda secca che gli pose telegraficamente un rabbino di New York nel 1929, “Crede in Dio? Stop. Risposta pagata per 50 parole”, Einstein rispose: “Io credo nel Dio di Spinoza che rivela sé stesso nell’ordine armonioso di ciò che esiste, non in un Dio che si preoccupa del destino e delle azioni degli esseri umani”. In realtà, in cinquanta parole Einstein non poteva spiegare (come fece altrove) la sua concezione, che non è identica, seppur vicina, al “Deus sive natura” di Spinoza (per saperne di più su Einstein e il suo approccio a Dio e alla religione, vedi: Einstein and Religion, Princeton University, 1999, del fisico Max Jammer, uno dei massimi storici e filosofi della scienza; è da poco scomparso a Gerusalemme all’età di 95 anni, ed è stato anche rettore della Bar Ilan University).
A differenza del Dio di Spinoza e di Einstein, il D-o che si rivelò ad Abramo e a Mosè e che parlò all’umanità attraverso la Torah è al di fuori della natura. Come afferma il Midrash, il mondo non è il luogo di D-o, bensì D-o è il luogo del mondo (Bereshit Rabbà 68:9; tr. di rav Alfredo Ravenna, UTET 1978, p. 556). Per questo uno dei Nomi di D-o è appunto Maqom (luogo). Risolvere le presunte contraddizioni fra religione e scienza, come quelle ormai storiche originate dalle teorie di Copernico e di Darwin, non è così difficile e molti religiosi (soprattutto se scienziati) ci sono riusciti. Ciò che invece è ancora problematico è conciliare una visione scientifica con la concezione del Dio personale. Far questo non è impossibile, ma certamente richiede uno sforzo intellettivo e un’elasticità mentale che spesso non si trovano fra gli scienziati né fra i religiosi.
Il fisico Leonard Mlodinow, figlio di un sopravvissuto al lager di Buchenwald, coautore di vari libri di Hawking, racconta, all’inizio del suo bel libro La passeggiata dell’ubriaco: Le leggi scientifiche del caso (Rizzoli 2009), che da ragazzo era affascinato dalle fiammelle danzanti delle candele dello Shabbat. Quelle immagini tremolanti lo stimolarono a riflettere sulla natura del mondo e della storia umana. Vedere la “mano” di D-o nella storia è forse più difficile che vederla nella struttura dell’Universo. Ma come la scienza non può escluderla nel secondo caso, così non lo può fare nel primo.
Gianfranco Di Segni
Consiglio Nazionale delle Ricerche
Collegio Rabbinico Italiano
Pagine Ebraiche, settembre 2012
(9 ottobre 2013)