“Grazie a Gino sono arrivato a Haifa”
“Dopo le persecuzioni, dopo la Shoah, ho voluto cambiare vita. E ho creduto nel sogno Israele”. Lo racconta a Pagine Ebraiche Giorgio Goldenberg, l’ebreo fiumano la cui testimonianza si è rivelata decisiva per attribuire a Gino Bartali il titolo di Giusto tra le Nazioni. L’incontro avviene a tre anni dall’intervista in cui, sulle colonne del giornale dell’ebraismo italiano, aprì un fronte inedito sul coraggio di Ginettaccio. Non solo staffetta clandestina di documenti falsi ma anche protettore di una famiglia in un appartamento di sua proprietà in via del Bandino, quartiere Gavinana, a Firenze. I Goldenberg, appunto. Giorgio è in Italia, ospite di una trasmissione televisiva. Per abbracciare Andrea, il figlio di Gino. Ma soprattutto per testimoniare ai giovani questa incredibile storia di sport, valori e solidarietà. Raccontare, toccare con mano il passato è sempre un’esperienza emozionante. Giorgio va oltre la sua storia di salvezza e affronta il disagio, la paura ma anche le speranze di una generazione tradita e in cerca di un nuovo inizio. A riavvolgere il nastro è Nahum Goldmann, leader sionista che avrebbe fondato e presieduto, per quasi 30 anni, il World Jewish Congress. Primavera 1945: nella Palestina sotto mandato britannico, di lì a poco Stato di Israele, arriva un barcone carico di ebrei italiani. Sono in grande maggioranza giovani e giovanissimi, i pionieri di un’utopia che sarebbe presto divenuta realtà. Giorgio viaggia con loro. È all’alba della sua adolescenza ma ha già vissuto, come i compagni di viaggio, esperienze terribili e anni sofferti. Su quella nave c’è anche Sergio Minerbi, poi ambasciatore a Bruxelles, oggi esponente di spicco della comunità degli Italkim. “Fu un momento molto emozionante e ancora vivo nei miei ricordi. Arrivammo ad Haifa – spiega Giorgio – e, una volta sbarcati nel porto, fummo accompagnati dai soldati nel campo di Atlit. Di là la Sochnut, l’Agenzia Ebraica, ci dispose in vari kibbutz. Io fui accolto a Ma’abarot, dove rimasi per quattro anni”. Il taglio col passato, per Giorgio, è netto. La voglia di chiudere, di gettarsi alle spalle il dolore irresistibile. E così avviene: Giorgio Goldenberg diventa Shlomo Pas, nome con il quale è ancora registrato all’anagrafe di Kfar Saba, suo comune di residenza. Abbandona inoltre l’italiano per immergersi completamente nella nuova lingua e nella nuova realtà, che trova subito dinamica e coinvolgente. È un momento di svolta: la fine del mandato britannico, la nascita nel ’48 dello Stato di Israele, la durissima prova di una guerra su più fronti. Pas sfoglia le pagine della sua vita con grande lucidità e commozione. Ricorda gli anni come dirigente della Israel Chemicals. La sfida di stimolare il comparto industriale, la responsabilità di rappresentare efficacemente le istanze di Israele e della sua imprenditoria nel più ampio contesto internazionale. Prima in Brasile, dove si ferma per sei anni. Quindi in Italia, il paese che a partire dal 1938, con la promulgazione delle leggi razziste, aveva mostrato il suo volto peggiore a Giorgio e chi, come lui, aveva l’unica colpa di essere ebreo. Al suo fianco siede Mina, l’inseparabile compagna di tanti momenti felici. Si conoscono in Italia. Shlomo è di stanza a Roma, Mina lavora all’ambasciata d’Israele. È colpo di fulmine. “Ogni settimana dovevo inviare una relazione sulle mie attività. Mi serviva qualcuno che sapesse scrivere a macchina. Così Mina veniva a casa mia il venerdì – sorride – per andarsene soltanto la domenica”. Ma il periodo romano è illuminante anche per altri motivi. “Col tempo ho capito che l’idea di chiudere con il passato è sbagliata. Il passato – dice – è sempre presente, il passato non si può cancellare”. La testimonianza in favore di Gino Bartali e del cugino Armandino Sizzi, gli eroi silenziosi della sua infanzia, ha rappresentato in questo senso un ulteriore incentivo a fare i conti con i cassetti dell’armadio della vita rimasti per troppo tempo chiusi. Shlomo, seguito da Mina, è voluto così tornare – una prima volta – nell’istituto religioso di Settignano che lo accolse per alcuni mesi e, assieme ad Andrea Bartali, nella cantina dell’appartamento del Bandino che fu per lui, per la sorellina Tea, per i genitori, l’ultimo rifugio prima della Liberazione dal giogo nazifascista. Ha potuto valutare ancora una volta come il tempo alteri la percezione delle cose (“Una cantina davvero piccola, me la ricordavo più grande”) ma soprattutto ha preso nuovo slancio per raccontare, nelle scuole israeliane, l’avventurosa storia della sua famiglia e l’amicizia di suo padre Giacomo con il campione di Ponte a Ema. “La terza generazione di israeliani – racconta Pas – è curiosa, la più curiosa di tutte, e si interessa di quegli anni molto più delle due che l’hanno preceduta. È una generazione che comincia a capire che è facile parlare ma non altrettanto agire. Adesso, fortunatamente, esiste un’ora educativa all’interno della quale è possibile affrontare argomenti a lungo visti come veri e propri tabù”. Shlomo non si considera un grande oratore ma quando prende la parola, dice, “nelle classi c’è il silenzio più assoluto, non vola una mosca”. E se la dimensione pubblica che ha assunto porta con sé inevitabilmente anche qualche fastidio (“il telefono che squilla di continuo, i giornalisti che mi tormentano”), tutto passa in secondo piano in virtù del rapporto che si è rafforzato con i giovani, i giovani che avevano la sua stessa età quando, senza alcuna certezza, Giorgio sbarcò ad Haifa. Oggi la certezza si chiama famiglia: una famiglia numerosa, bellissima, calorosa. “Una grande gioia” commenta Shlomo, che da quando è andato in pensione si occupa a tempo pieno di traduzioni (è traduttore ufficiale dell’ambasciata italiana a Tel Aviv) con lo stesso entusiasmo che immetteva nel suo lavoro dirigenziale. Resta ancora un capitolo da schiudere del tutto: la prima infanzia a Fiume, città in cui è nato e dove è vissuto fino alla repentina fuga dei Goldenberg verso Firenze. La sinagoga di via Pomerio bruciata dai nazisti, la casa di via Leonardo da Vinci, la gioielleria degli zii nel corso cittadino. Il ricordo c’è, anche se sbiadito. A differenza di Firenze – dove abita il cugino Aurelio, che incontra almeno una volta all’anno – il Quarnero non è una meta abituale dei suoi viaggi. Troppo il dolore, troppa la sofferenza accumulata in quei luoghi. Come ha spiegato anche in una recente intervista concessa al quotidiano fiumano in lingua italiana La voce del popolo: “Sono tornato a Fiume otto o nove anni fa. Non è stata un’esperienza piacevole. Non è più la mia Fiume, non la riconosco più”. (nell’immagine Giorgio ancora ragazzino con la sorella e i genitori)
Adam Smulevich, Pagine Ebraiche novembre 2013
(8 novembre 2013)