In gara per tenere vivo il ricordo
Tutto era iniziato un po’ in sordina: sembra trascorso un secolo ma stiamo parlando del 2002, i computer non erano ancora entrati nella maggior parte delle case degli italiani e internet era un privilegio di pochi.
In quel periodo la parola “Shoah” non era ancora inflazionata: nemmeno si sapeva bene come scrivere e pronunciare questo termine straniero. Non solo non si parlava di abuso di Memoria, ma neanche di uso. In pochi erano coscienti che la radice del termine “ricordare” possedeva al suo interno un segreto: l’etimologia latina del “cor-cordis”, il cuore, per gli antichi la sede della Memoria.
Ma sembravano esserne coscienti invece i ragazzi e gli insegnanti che all’epoca lavoravano al concorso “I giovani ricordano la Shoah”. I lavori che arrivavano dalle scuole primarie (quelle che quasi tutti conoscono come elementari, che evocano subito l’immagine di grembiulini azzurri e bianchi sotto visetti di bambini sdentati) erano per lo più grandi poster, a volte lenzuola dipinte, o pagine di quaderno ritagliate fantasiosamente. Le superiori di primo grado (quelle che all’epoca erano comunemente conosciute come scuole medie) inviavano lavori realizzati con gli insegnanti di educazione tecnica oppure lunghissimi elaborati scritti nei quali le parole “orrore”, “mai più”, “noi ricordiamo”, la facevano da padrone. I Licei e gli Istituti tecnici spesso riuscivano a sintetizzare concetti complicati e talvolta astratti in lavori che risentivano dell’arte degli anni ’90, che si ispiravano all’“Urlo” di Munch o alle copertine di dischi dell’epoca.
Ma tutti i lavori avevano un denominatore comune che si poteva percepire con chiarezza: una volontà di far sentire la partecipazione e il coinvolgimento in una tematica tanto difficile da trattare. Fin da subito la risposta che si ebbe fece comprendere quanto l’Italia della scuola volesse da subito “fare i conti” col proprio passato, crescere nella coscienza civica attraverso lo studio, l’approfondimento, l’elaborazione e la comprensione della storia recente.
I bambinetti di terza elementare di una scuola di Puglia che vinsero la prima edizione del concorso arrivarono a Roma accompagnati da tanti papà e mamme. Adesso sono giovani adulti; da parte mia ogni tanto mi chiedo se il piccolo sdentato che aveva chiesto alla emozionatissima maestra, mentre salivano le scale del Quirinale: “Maestra, perché tremi?”, e che mi indicava una stellina del lavoro della sua classe che aveva colorato proprio lui, ha continuato a vincere nella vita, come, insieme ai suoi compagni, vinse il concorso.
È trascorso un bel po’ di tempo da allora. Vedere oggi una piccola parte di quei lavori in una mostra fa uno strano effetto: una miriade di colori, di immagini, di suoni che si rincorrono e si scontrano e sorprendentemente si armonizzano tra di loro: il mucchio di valigie accumulate da una parte, i disegni pieni di stelle gialle fissate nel cielo azzurro o su casacche a righe bianche e blu; binari di treni immobili e che portano verso l’infinito o verso i cancelli di Auschwitz, metonimia del secolo breve. Ma anche false carte d’identità, giochi di simulazione, calendari della memoria, bottigline contenenti pillole di tutti i colori mescolate tra loro, da assumere tre volte al giorno contro il razzismo.
Documenti di archivio scovati nelle polverose cantine delle scuole e riportati alla vita e allo studio; interviste a sopravvissuti o anche a chi la Shoah l’ha vissuta dalla porta accanto. Per non parlare poi di quadri e di modelli del ghetto di Varsavia o di campi di concentramento metafisici, immaginari. Ogni lavoro con la sua dignità e con traboccanti speranze di vittoria, un percorso fisico e virtuale attraverso le stanze della memoria e della storia.
C’è tutto questo, e molto altro ancora, nella mostra che ripercorre i dodici anni di vita del concorso, tra tutti i concorsi per le scuole quello che ha il maggiore numero di partecipanti, circa quindicimila ogni anno.
Sopra i lavori esposti al Museo di Roma in Trastevere si possono leggere a grandi lettere le parole di Primo Levi: “…Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo”.
Credo che i ragazzi delle scuole d’Italia che hanno lavorato o lavorano al tema della Shoah in qualche modo dimostrino la loro volontà di riparare, a modo loro, con i loro mezzi espressivi, all’ingiustizia. E in questo nostro Paese ancora immerso nel grigiore di una crisi che sembra infinita, l’evidenza che tanti giovani sappiano esprimere compostamente e maturamente i loro pensieri e le loro elaborazioni creative con tanta delicatezza e intelligenza, dona anche un po’ di buone speranze per il prossimo futuro.
Sira Fatucci, da Pagine Ebraiche febbraio 2014
(22 gennaio 2014)