Qui Roma – La rinascita che iniziò dal Salento

Tavola rotonda su Salento - RomaDal Salento con lo sguardo rivolto a Israele, la terra dove ricostruirsi una vita dopo gli orrori della Shoah. È la storia che hanno condiviso migliaia di ebrei che nell’immediato dopoguerra trovarono rifugio nel sud Italia, in attesa di salpare per Israele. Vicenda poco nota a cui è stato dedicato l’appuntamento di ieri “Identità tra emergenza e rinascita”, organizzato nella sala presidenziale della stazione Ostiense di Roma dall’Associazione Prospettive Mediterranee, in collaborazione con il Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane e La Fondazione Museo della Shoah di Roma. Una tavola rotonda dal titolo e significato simbolico visto il luogo: nelle stesse sale nel maggio del 1938 Mussolini incontrò Hitler per dare il via alle leggi razziali. All’incontro ha partecipato Rivka Cohen, testimone degli eventi dell’epoca che raccontato la sua esperienza nei Campi di Transito del Salento.
Diverse le voci che, a fianco della Cohen, hanno partecipato all’incontro, toccando tematiche diverse, tra cui: Silvia Haia Antonucci del Dipartimento di Cultura Ebraica, Paolo Coen, docente di Arte moderna, il rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni, la scrittrice israeliana Lizzie Doron, il giornalista Arrigo Levi, Livia Link, consigliere Affari pubblici e politici presso l’ambasciata dello Stato di Israele in Italia, il consigliere UCEI Victor Magiar, il presidente della Comunità ebraica capitolina Riccardo Pacifici.
“Volevamo ricordare l’evento ed il contesto iconografico in cui l’orrore della Shoah ha avuto inizio, per spiegarne il motivo e superarlo – ha commentato il presidente dell’Associazione, Enrico Molinaro – In questa sala così particolare, infatti, lanciamo un progetto multidisciplinare di ricerca che vuole raccontare una storia poco nota, quella di decine di migliaia di ebrei che nell’immediato dopoguerra hanno trovato rifugio in Salento, nel sud d’Italia, in attesa di tornare verso la loro Terra Promessa. Il senso identitario di questi superstiti, l’idea di far parte di un gruppo, li ha salvati”.

Di seguito riportiamo la testimonianza di Rivka Cohen.

“Per tutta la vita ho subito il fascino di essere nata in una terra come l’Italia. Ero fiera di dirlo alla gente. Del resto, la maggior parte degli ebrei europei sono nati in Polonia o Ungheria. Quanti possono vantare di essere nati in Italia? Lo trovo così romantico!
Una mano provvidenziale ha guidato i miei genitori da Santa Maria al Bagno a Nof Yam in Israele, dove ho trascorso l’infanzia tra le spiagge di Apollonia. Ero una vera “figlia del sole”!
Non disponevo di un certificato di nascita e non averlo ha aumentato negli anni l’alone di mistero che si celava dietro le mie origini, legate a quel posto sconosciuto che era Santa Maria di Leuca. A 50 anni, l’aver avuto questo certificato è stato per me motivo di grande entusiasmo e spinta verso quello che è stato il mio Viaggio verso i confini della Terra.
“Confini della terra” ha per me una doppia accezione. Significa non solo i “Finis Terrae” italiani, ma anche i limiti del Vecchio Continente – nel mio caso l’Ungheria – la fine dell’Europa della seconda Guerra Mondiale.
L’anno del nuovo millennio è stato un punto di svolta nella mia vita. Ho intrapreso due viaggi verso destinazioni che non conoscevo: l’Ungheria e Santa Maria di Leuca. Da questi due viaggi sono nati due dei più grandi progetti che abbia mai realizzato: il libro che ritraccia la storia della mia famiglia e il mio lavoro di ricerca per il film “Rinascita in Puglia”.
Entrambi i miei genitori venivano dal nord-est dell’Ungheria. Nonostante ciò, non avrebbero mai potuto incontrarsi a causa del diverso credo che divideva le loro famiglie: mia madre veniva da una famiglia ultra-ortodossa, mentre mio padre da una liberale. La guerra venne a recidere la loro routine di adolescenti. Distrusse metà delle loro famiglie e alla fine unì loro due: mia madre, sopravvissuta di Auschwitz e Theresienstad e mio padre, fuggito dai campi di sterminio.
Come si conobbero i miei genitori? Il mio bisnonno materno morì ad Auschwitz lasciando una grande distilleria. Mio padre era un esperto di macchinari da distilleria e fu ingaggiato per ripararne uno.
Alla fine della guerra nessuno poteva immaginare un conflitto peggiore. Ma spesso da grandi conflitti nascono rapporti sinceri e umani che uniscono anime sole e desiderose di affetto. Dopo aver vagato per l’Italia, mio padre e il mio bisnonno si spostarono verso la Palestina e poi ancora verso Tel Aviv. Tre anni dopo partirono alla volta di Nof Yam.
Quando arrivammo qui, nel 1952, c’era solo sabbia ovunque. Faceva caldo, il sole batteva sui cactus e gli olivi tutt’intorno. La cosa più bella da vedere era la spiaggia. Vi accedevo da una stradina di rocce calcaree, lungo la quale gridavo un “ciao” a Nino, il pescivendolo che viveva in un riparo accanto al mare. Una volta arrivata alla baia di Apollonia, mi tuffavo in acqua e godevo di quei momenti.
Nonostante il mio passato doloroso e le perdite che aveva sofferto la mia famiglia, i miei genitori sono riusciti a regalarmi un’infanzia “piena di sole”.
Quando finalmente tornai a Leuca nel 2000, per me fu come un miraggio! Le colline si proiettavano a picco sul mare, le case bianche splendevano sotto il sole e illuminavano il porto, mentre l’azzurro del cielo e dell’acqua si aprivano ai miei occhi come un ventaglio magico. Lacrime di gioia scorrevano dai miei occhi. Per me era una sorta di “déjà vu”. Fui invasa dal ricordo di un infanzia vissuta ad Apollonia e da quello delle descrizioni del Salento che mi avevano dato i miei genitori.
La mia vita, nel contesto della cosiddetta “seconda generazione”, non è di certo comune se paragonata a quella degli altri sopravvissuti all’Olocausto. Non posso dire di aver vissuto in una casa dove la depressione e i brutti ricordi opprimevano la mia esistenza. Sono stata fortunata per aver avuto una madre che mi diceva: “Non voglio “nutrirti” dell’Olocausto mattina e sera”. Mio padre era occupato nel suo lavoro per la Nazione, dove si costruì una buona reputazione; mia madre era una casalinga e una donna piena di gioia e immensa riconoscenza alla vita. Come si dice, guardava sempre il lato positivo delle cose, sempre verso l’avvenire e mai indietro.
Ci spiegò questa sua attitudine durante la festa dei 70 anni di mio padre, mentre ci raccontava come si erano conosciuti. Disse le seguenti parole:
“Non aspettatevi una storia romantica. Non è stato certo amore a prima vista. Era il periodo che seguiva l’Olocausto, quello del “vivere o non vivere”. Se volevi andare avanti con la tua vita, dovevi crearti una famiglia e metter su casa. Ed era quello che volevo anch’io.”
A parte il loro silenzio riguardo i campi di concentramento, tipico dei sopravvissuti, i miei genitori parlavano molto dell’Italia. Gli alberi di fico, gli ulivi, i melograni offrivano viste mozzafiato, mentre il sole salentino li accarezzava e le spiagge curavano i loro corpi e i loro animi provati dagli orrori della Shoah.
Il Fondo UNRRA offriva dimore, vestiti e cibo. I loro furgoni condussero i miei genitori attraverso l’Europa centrale, mentre i soldati della Brigata Ebraica trasferirono i sopravvissuti nel sud Italia. Era naturale organizzare i campi in quest’area, che era già stata liberata nel 1943. I campi erano abitati da rifugiati provenienti da Yugoslavia e Russia, e Italia e Palestina condividevano lo stesso mare.
L’UNRRA organizzò anche dei laboratori per coloro che volevano apprendere una professione ed iniziare una nuova vita in una terra nuova. Mio padre gestiva quello adibito alla lavorazione dei metalli ed istruì 18 uomini. Preparava utensili da cucina e costruì persino un passeggino per me e mio cugino.
I miei genitori erano finalmente pronti a scrivere un nuovo capitolo della loro vita. Si sposarono in Ungheria, sebbene ci furono circa 300 matrimoni nel Salento. La signora Vittoria Turco prestò il suo abito da sposa a una delle ragazze ebree, e fu così che questo passò, col tempo, da una sposa all’altra.
Ma la gioia più grande di mia madre fu quella di scoprire di essere incinta. All’inizio temeva di non essere in grado di dare la vita, a causa dei danni fisici subiti nei campi. In seguito, all’ospedale di Leuca, venne a contatto con le suore cattoliche che aiutavano giovani partorienti ebree. Non aveva mai visto niente del genere, tanto meno in Ungheria. Si trattava delle suore del Sacro Cuore, che aiutavano chiunque ne avesse avuto bisogno e di cui molte madri si ricorderanno sempre.
Fu soprattutto il contatto con la gente locale – generosa, accogliente e gentile – a scaldare il cuore dei miei genitori. Quando i locali li vedevano passeggiare lungo la spiaggia, gli venivano incontro offrendo loro ostriche. Dicevano: “ne prenda signora, è buono per il bambino!” Ogni volta che mio padre andava a guardare il pescatore a riva, questo gli dava sempre un pesce “per la signora”.
Vorrei concludere questa mia testimonianza rimandando a due fotografie datate 1945 (proprietà del Museo dell’Olocausto degli Stati Uniti). Mostrano il Vescovo di Bari, che venne a benedire la nave Dalin prima che questa salpasse per la Palestina. Questa fu la prima imbarcazione dopo la guerra a tentare di raggiungere le spiagge della Terra Promessa. Il suo capitano era un Italiano Ebreo, Enrico Levi. La nave salpò da Bari il 21 Agosto 1945. Fu un esempio molto significativo della solidarietà tra Cattolici ed Ebrei.
Gli anni che i miei genitori trascorsero in Italia furono riparatori e restituirono loro la fiducia e la speranza nella specie umana dopo gli orrori della guerra. La generosità e la gentilezza che contraddistingue gli italiani è stata la miglior medicina ai loro dolori e alle loro sofferenze.
Grazie Italia!”

(28 gennaio 2014)