Identità: Haim Herman Cohen

cohenNel 1958 l’allora Primo ministro dello Stato di Israele, David Ben Gurion si è trovato a gestire il fatto che la nozione stessa di identità ebraica era diventata in Israele oggetto di una legislazione che avrebbe avuto implicazioni pratiche cruciali. A cinquanta “Saggi di Israele” Ben Gurion pose la domanda divenuta il titolo del lavoro del professor Eliezer Ben Rafael, che in un e-book intitolato “Cosa significa essere ebreo?” – scaricabile dai siti www.proedieditore.it e www.hansjonas.it – ha messo in luce per la prima volta in Italia quella discussione sistematica sull’identità ebraica. Ogni domenica, sul nostro notiziario quotidiano e sul portale www.moked.it, troverete le loro risposte. Oggi è la volta di Haim Herman Cohen. Nato in Germania, giurista, è stato per oltre vent’anni giudice presso il Tribunale supremo di Israele.

Signor Primo ministro,
La prego di scusarmi per non avere ancora risposto alla Sua lettera del 27 ottobre: affari urgenti e [impegni] ufficiali non mi hanno lasciato il tempo di consultare i testi e temo, ancora adesso, di essere in grado di esporre solo una minima [dell’argomento in questione]. Il 20 febbraio 1958 avevo scritto al capo di Gabinetto del Ministero degli Interni (tra gli altri) quanto segue: Se due congiunti dichiarano che il loro figlio è ebreo, la si deve considerare come se fosse una dichiarazione legale del figlio stesso: secondo la legge dei diritti della donna del 5711-1951, i due genitori sono i tutori del figlio e parlano in sua vece. Anche qui, beninteso, a condizione [che lo facciano] in buona fede; non si deve però vedere della malafede perché uno dei genitori non è ebreo e dichiara di non esserlo. Per il funzionario dello stato civile, il fatto che per la Torah il figlio segua la [religione] della madre non ha alcuna importanza. È possibile che non sia la regola della Torah, ma un’altra legge che [regoli lo statuto] personale del figlio, e secondo il diritto personale che a lui si applica, è possibile che segua la filiazione paterna e non quella materna. Sono problemi per i quali il funzionario dello stato civile non ha competenza e che non è in grado di valutare. La dichiarazione dei genitori che il figlio è ebreo gli è sufficiente per registrarlo in quanto tale. Che cosa si deve fare quando uno dei genitori dichiara che il figlio è ebreo e l’altro lo dichiara invece non ebreo?… A mio avviso, in questo caso si deve registrare che la religione e la nazione del figlio sono sconosciute. Da quando mi ha onorato della Sua lettera e mi ha spinto a consultare i testi, l’opinione a suo tempo espressa [nella mia lettera] al Ministero degli Interni è ancora più salda e rimango dello stesso parere: lo Stato non ha altra soluzione che registrare allo stato civile la nazione e la religione di un figlio secondo le affermazioni dei genitori. Non c’è altro mezzo per rispettare la legge. E per quanto in apparenza contraria alla Halakhah ebraica [che dice] che un figlio di madre non ebrea segue la religione della madre e non quella del padre, mi sembra che solo questa strada corrisponda a quanto c’è di meglio nella tradizione giuridica e morale di Israele.
Sul piano legale: [il termine] ebreo non ha lo stesso significato per le leggi della Knesset e per la Torah. Spetta al Ministro degli Interni, e non alle autorità religiose, applicare la legge del Ritorno, la legge sulla nazionalità e il decreto sullo stato civile. È inimmaginabile che incaricando il Ministro degli Interni dell’applicazione di queste leggi, la Knesset abbia avuto l’intenzione di conferirgli l’autorità di decidere sull’[identità] ebraica di una persona secondo le regole religiose. Accade che sorga il problema dell’ebraicità di una persona, secondo la legge, per questioni […] religiose, come i matrimoni o i divorzi. È la legge [civile ] che attribuisce in quei casi alle autorità religiose – cioè ai tribunali rabbinici – l’ esclusiva competenza in materia. Non è però la stessa cosa quando il problema dell’ebraicità di una persona si pone per una cosa diversa dal matrimonio o dal divorzio, o da [qualsiasi] altra questione religiosa riconosciuta come tale dalla legge, ma invece per una questione puramente amministrativa, come l’ingresso di una persona nel territorio israeliano, il suo stabilirsi in Israele e la sua nazionalizzazione: “l’ebraismo religioso”, cioè lo statuto di una persona come ebrea secondo le regole della religione, non svolge alcun ruolo e non può essere pertinente […]. Una decisione religiosa può essere diversa, per contenuto e per natura, da una decisione amministrativa. Il fatto che una persona non sia ebrea secondo le regole della Torah, non le impedisce di essere considerata ebrea per l’applicazione della legge del Ritorno, e viceversa. Anche il fatto che una donna sia considerata sposata dalle regole religiose, non impedisce […] che, per l’applicazione di leggi [civili] come le leggi di successione, sia invece considerata divorziata. Una tale incompatibilità può presentarsi al tribunale di prima istanza: giudicando secondo le regole della Torah, come per esempio, per la questione degli alimenti di una donna, la considererà sposata. Giudicando invece secondo la legge non religiosa, come per esempio per la successione, è possibile che debba considerare la stessa donna divorziata dal marito da cui riceve ancora gli alimenti. Contraddizioni che possono esistere in tutti i casi e interessare ogni uomo e ogni donna. Tali contraddizioni sono la conseguenza inevitabile del sistema giuridico in vigore da noi, che si divide fra tribunali religiosi e tribunali [civili] e del metodo del diritto diviso tra quello religioso e quello laico. Fino a quando esisterà tale ripartizione, non possiamo fare altro che tentare di adattarvisi, quali che siano i problemi giuridici e amministrativi [che ne derivano]. Pur riconoscendo l’autorità religiosa e pur sottomettendovisi nella misura consentita dalla legge, il potere esecutivo non è autorizzato a estenderne la competenza. Tranne che per le questioni relative a matrimoni e divorzi, le regole della Torah non sono vincolanti in questo Stato e chi volesse imporlo in altri ambiti, dovrebbe portare il potere legislativo a farlo; non può esigerlo dal potere esecutivo. Le frontiere che separano il diritto che è vincolante [per definizione] dalla religione che non è vincolante [in uno Stato laico], costituiscono le basi dello Stato e dei diritti fondamentali dei suoi cittadini.
Se il governo ha deciso “che le persone maggiorenni saranno registrate come facenti parte della “nazione” e della “religione” ebraiche se dichiarano in buona fede di essere ebree e di non appartenere a nessun’altra religione”, è inevitabile, a mio avviso, che si debba iscrivere come “ebraica” la religione e la nazione di un minorenne quando entrambi i genitori dichiarano in buona fede che è ebreo e non appartiene a nessun’altra religione. I genitori sono i tutori del proprio figlio, non solo per natura, né perché tale è la tradizione dell’umanità, ma anche per un preciso articolo della legge sull’uguaglianza dei diritti della donna 5711-1951. L’autorità e il ruolo di tutori del proprio figlio attribuiscono loro il privilegio e l’obbligo di fare in suo favore e in sua vece ciò che fanno per se stessi; d’altronde è per la sua giovane età e per la sua immaturità che la legge rende necessaria la dichiarazione dei genitori e ha invalidato quella del figlio. Possiamo anche stabilire un’analogia con le leggi sulla nazionalità. Se i genitori dichiarano in nome del figlio che questo non vuole ottenere la nazionalità israeliana in virtù della legge del Ritorno, non l’avrà (articoli 2b e 3 della legge sulla nazionalità, 5712-1952). Se non fanno tale dichiarazione, il figlio avrà la nazionalità israeliana insieme ai suoi genitori dal momento che è immigrato [in Israele] con i suoi genitori in virtù della legge del Ritorno. Di conseguenza, per l’immigrazione e per l’ottenimento della nazionalità in quanto ebreo, il caso del figlio è identico a quello dei suoi genitori: se hanno ottenuto un visto di immigrazione per aver dichiarato di essere ebrei, anche lui lo avrà. Se sono immigrati e sono diventati cittadini israeliani, affermando che sono ebrei, egli immigra con loro e diventa anch’esso cittadino israeliano. Perché dovrebbe essere svantaggiato, e perché la dichiarazione dei suoi genitori dovrebbe essere invalidata proprio quando si tratta dell’iscrizione allo stato civile? È vero che l’appartenenza religiosa, a differenza di quella nazionale, è religiosa per sua stessa natura. Mi sembra tuttavia che la questione dell’iscrizione di una persona allo stato civile non debba essere risolta basandosi sulle regole religiose. Se la legge [civile] decide che si deve registrare la religione di una persona, ciò non è sufficiente ad autorizzare o a obbligare il funzionario dello stato civile a fare ricerche, a indagare e a decidere qual è, dal punto di vista religioso, la religione della persona che vuole essere registrata. Secondo la legge, l’obbligo di iscriversi è imposto al residente e non al funzionario. Se dichiara la propria religione, il residente adempie al suo dovere esattamente come quando fornisce il proprio indirizzo. Il funzionario può richiedergli dei documenti e altre prove ma non è obbligato a farlo; egli ricorrerà a tale diritto nei soli casi in cui avrà l’impressione che [la persona davanti a lui] non è in buona fede. Se invece le dichiarazioni non suscitano in lui alcun sospetto, non ha bisogno e non ha alcuna ragione di chiedere delle prove. Dopo una richiesta di chiarimenti, se la dichiarazione in oggetto si rivela non essere stata fatta in buona fede, la religione del [cittadino] e di suo figlio non sarà registrata secondo la suddetta dichiarazione. Il funzionario non è però né giudice né rabbino: la sua sola funzione è registrare e soltanto ciò che il cittadino in obbligo di registrarsi gli detta. Anche nel caso in cui il funzionario chieda la spiegazione di questo o quel dettaglio, la sua convinzione [negativa] non è un ostacolo poiché il tribunale o qualunque altra autorità amministrativa possono respingere le sue prove senza prenderle in considerazione. Le decisioni del funzionario dello stato civile sono valide e vincolanti solo per l’applicazione del decreto sullo stato civile; esse non hanno alcun valore giuridico vincolante per l’applicazione di un’altra legge. Di conseguenza, se una data persona è registrata allo stato civile come di religione ebraica, ciò non vincola nessun tribunale civile o rabbinico, né alcuna autorità religiosa o amministrativa; l’iscrizione prova che una dichiarazione relativa alla religione della persona è stata fatta in presenza del funzionario dello stato civile e che questo non ha trovato alcuna ragione di metterla in dubbio.
La stessa cosa avviene per il minorenne: ciò che è registrato allo stato civile è ciò che i suoi genitori, in quanto tutori legali e naturali, hanno trasmesso al funzionario. Se è stato registrato come appartenente alla religione ebraica, non c’è alcun indizio o alcuna prova che secondo le regole della Torah o anche secondo la legge [dello Stato] sia di religione ebraica; c’è solo la prova che i suoi genitori lo hanno dichiarato di religione ebraica e che il funzionario non ha alcuna ragione di mettere in dubbio la loro buona fede. A mio avviso, l’iscrizione della religione va in ogni caso al di là della competenza del funzionario dello stato civile: non è autorizzato a registrare ciò che la persona desiderosa di iscriversi – o i suoi tutori – non gli chiedono. Non è certamente autorizzato – né competente, né in grado – di [prendere] decisioni religiose o giuridiche, in merito al collegamento del figlio con la filiazione paterna o materna, o la questione preliminare ancora irrisolta, della giurisdizione personale cui è sottoposto il bambino, che sia quella della Torah, che sia una legge straniera oppure la legge israeliana non religiosa. Obbligare il funzionario, e incaricarlo di indagare su tali questioni e prendere delle decisioni, avrebbe come conseguenza di farlo entrare in un circolo vizioso senza una possibile via di uscita: se il bambino non è ebreo, le regole della Torah, che non si applicano a lui, negano che sia ebreo. Inoltre, se decidessimo, secondo una legge laica, che il bambino segue la filiazione paterna e che, di conseguenza, è di religione ebraica, sarebbe sottoposto alle regole della Torah che non riconoscono che egli è ebreo! È meglio lasciare tali problemi ai tribunali civili e religiosi a ciò preposti. Può darsi che il tribunale [civile] consideri una tale persona ebrea per le questioni di sua competenza, mentre il tribunale rabbinico non la riconosca ebrea. Può darsi che non ci sia bisogno né dell’uno né dell’altro. Per decidere che il figlio segue la filiazione materna [per l’appartenenza religiosa], è necessaria una decisione giuridica su complesse questioni del diritto. Che cosa hanno a che fare con questo i funzionari dello stato civile! In conclusione: il funzionario dello stato civile deve registrare soltanto le informazioni che gli forniscono i genitori del bambino.
Sul piano della tradizione ebraica: la regola secondo la quale un bambino nato da madre non ebrea segue [in fatto di religione] la filiazione materna, senza che ci si preoccupi di sapere chi è il padre, ha la sua origine nell’esegesi biblica, dal versetto: “Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farli servire a dèi stranieri”. I commentatori ne hanno dedotto che i figli dei tuoi figli, nati da padre non ebreo, sono chiamati i tuoi figli, ma che i figli dei tuoi figli, nati da madre non ebrea, non sono chiamati i tuoi figli ma i suoi figli [i figli di lei]. Perché, se la [Torah] pensasse che le tue figlie, avendo un figlio da un uomo non ebreo, allontanassero i propri figli dall’Eterno, il testo impiegherebbe anche il femminile (esse allontanerebbero) e non soltanto il maschile (essi allontanerebbero). I commentatori si appoggiano anche sul versetto: “Se un uomo avrà due mogli e […] gli avranno procreato i figli” fino a quando la donna potrà essere dell’uomo in seguito a un matrimonio religioso in regola, questa può partorirgli dei figli, ma se questa non può essere sua moglie [secondo la legge ebraica], non può partorirgli dei figli ma partorire solo per se stessa. Possiamo supporre che l’esegesi sia stata condotta a cose fatte, per giustificare la tradizione esistente e che la vera ragione che ha portato a determinare la filiazione [religiosa] dei figli secondo le madri non ebree sia stata il timore – o forse il frutto dell’esperienza – che i figli siano sottoposti all’influenza materna che in generale è dannosa. Possiamo basarci sul fatto che quando i [mariti ebrei] hanno ripudiato le mogli non ebree all’epoca di Esdra, hanno mandato via con loro anche i figli. Non si trattava delle donne, anche se non ebree, ma delle “nefandezze di cui l’hanno colmato da un capo all’altro con le loro impurità”. Il ripudio aveva come scopo quello di purificare il campo e di separarlo dai popoli [che si erano insediati nel] paese; se non fosse stato fatto, il pericolo di assimilazione totale sarebbe stato imminente, sia sul piano culturale e religioso, che su quello etnico, è cosa nota. Queste circostanze hanno determinato la decisione che la filiazione dei figli segue la madre; tale decreto era essenzialmente politico perché nei libri di Esdra e di Neemia non troviamo alcuna allusione a un riferimento religioso o giuridico in proposito. Le parole di Secania, figlio di Iechièl, uno dei figli di Elam, ripudiando le donne e i loro figli: “Si farà secondo la Legge”, sono state spiegate come prova che per la Torah i figli seguono la filiazione materna. Prese però alla lettera, significano che ripudiando le mogli straniere, questi “riparavano” ciò che era stato fatto contrariamente alla Torah, per agire d’ora in poi in conformità con le sue leggi […]. Pur ammettendo che la legge secondo la quale un figlio di madre non ebrea non è ebreo, è intangibile, non abbiamo ancoro risolto i problemi che si pongono a noi. Non si deve dimenticare che si tratta di un uomo e di una donna, dei loro figli e delle loro figlie, residenti dello Stato di Israele, che sono probabilmente venuti a insediarvisi in virtù della legge del Ritorno. Compiono il loro dovere registrandosi allo stato civile e dichiarano che sono ebrei o, almeno, il padre dichiara che è ebreo e che anche i suoi figli lo sono.
Ecco un racconto riportato dal Talmud: Un uomo [che la società considerava ebreo] si presenta da Rabbi Yehudah e gli dice: “mi sono convertito da solo” (cioè non davanti a un tribunale, e la conversione non ha alcun valore). Rabbi Yehudah gli risponde:
– Hai dei testimoni?
– No.
– Hai dei figli?
– Sì.
– Sei degno di fede per invalidare [la tua identità ebraica] ma non sei degno di fede per invalidare [quella dei] tuoi figli.
Il testo talmudico non indica se la madre dei figli era ebrea, straniera o convertita [all’ebraismo]. Rabbi Yehudah sembra non essersi interessato alla questione; gli era sufficiente sapere che i figli erano considerati [ebrei] e che il loro padre non era autorizzato a invalidare la loro identità. Maimonide condivide l’opinione di Rabbi Yehudah ma cambia la formulazione: “Era sposato a un’ebrea o a una convertita [all’ebraismo]; ha dei figli”, e dice proprio così:” Mi sono convertito da solo”. È degno di fede per invalidare [la sua ebraicità] ma non è degno di fede per invalidare quella dei suoi figli. Gli esegeti pongono il problema di sapere che cosa Rabbi Yehudah ha voluto insegnarci: se si tratta di una madre ebrea o convertita [all’ebraismo], i figli sono in ogni caso ebrei e il fatto che il padre non lo sia non cambia niente. Se la donna è straniera, qualunque cosa si faccia, i figli non sono ebrei: se la donna è ebrea, questi sono ebrei. Come sempre hanno sviluppato un ragionamento per spiegare [la difficoltà]: forse si tratta di una convertita [all’ebraismo] la cui conversione non è stata fatta secondo le regole, oppure si tratta soltanto della tara di mamzer [bastardo]. Dal canto mio, mi sembra sia inutile complicare le cose e che si possa accettare la teoria di Rabbi Yehudah così com’è. In effetti lo Shulhan Arukh ha soppresso ciò che ha aggiunto Maimonide: se qualcuno, considerato [dalla società] ebreo dice: “Mi sono convertito da solo”, e se ha dei figli, non ha la competenza per annullare l’ebraicità dei propri figli ma soltanto per annullare la sua. Può mettersi in una situazione che gli impedisce di sposare una donna ebrea fino a quando non si converte davanti a un tribunale rabbinico ma i suoi figli sono in ogni caso ebrei. Il padre non può annullare l’ebraicità dei propri figli: infatti, se lui stesso riconosce che è straniero, la sua testimonianza diventa irricevibile [davanti a un tribunale rabbinico]; a maggior ragione, una madre non ebrea non ha la possibilità di dichiarare che i propri figli non sono ebrei perché non solo è straniera ma in più è donna e i due attributi rendono la sua testimonianza irricevibile. Di conseguenza, secondo la regola della Torah, i figli che vivono in Israele devono essere considerati ebrei. Soltanto la testimonianza, davanti a un tribunale rabbinico competente, di testimoni validi [per la Halakhah], potrebbe cambiare la situazione; finché sono considerati legalmente ebrei, sono ebrei in Israele.
Finora non abbiamo dato sufficiente rilievo al fatto che tale problema si pone in Israele, la cui maggioranza degli abitanti sono ebrei e in cui ogni semplice cittadino deve essere a priori considerato ebreo, da tutti i punti di vista. È evidente che se qualcuno afferma di essere ebreo non si indaga sul suo conto. Alcuni hanno voluto utilizzare come prova [delle loro asserzioni la storia] dello straniero che è venuto a Gerusalemme per mangiarvi del sacrificio pasquale, facendosi passare per ebreo, nonostante [il testo biblico] precisi: “Nessuno straniero ne deve mangiare”. Questo, dicono gli autori delle Tosafot, non prova che si debba credere a tutti coloro che si presentano a noi affermando che sono ebrei, ma qui [in Israele], la situazione è diversa perché la maggioranza [della popolazione] è ebraica [e, a priori, si suppone che qualsiasi persona appartenga alla] maggioranza. Altrove, inoltre, gli autori delle Tosafot hanno espresso un’opinione più avanzata: bisogna fidarsi di tutti quelli che dicono che sono ebrei, anche in luoghi in cui la maggioranza [degli abitanti] non è ebraica, perché la maggior parte di coloro che si presentano a noi come ebrei, lo sono effettivamente e c’è perciò in ogni modo una maggioranza anche se una minoranza di persone sostengono in modo menzognero di essere ebrei, si [decide] secondo la maggioranza di quelli che dicono la verità, e anche quegli altri sono ebrei. Nel libro Sefer mitzvot gadol di Rabbi Moses de Coucy (XIII secolo) troviamo questa interessante testimonianza: “Succede tutti i giorni che arrivino ospiti di passaggio: non facciamo inchieste su di loro, beviamo del vino con loro e mangiamo bestie che hanno ucciso secondo il rito”. Di conseguenza, se qualcuno si presenta affermando che si è convertito secondo le regole e se nessuna informazione permette di supporre che non è ebreo, gli si crede, perché non ci sarebbe alcuna ragione per non dire la verità: al contrario, avrebbe persino potuto dire che è nato ebreo e lo avremmo creduto. Perché allora non gli dovremmo credere se dice di essersi convertito secondo la regola? 37 Maimonide aggiunge però un limite a questa regola: “Se qualcuno si presenta dicendo che un tempo non era ebreo e si è convertito davanti a un tribunale rabbinico, gli si crede perché non aveva bisogno di fare questa dichiarazione”.38 Questo era il caso nel paese di Israele, in un’epoca in cui si supponeva che tutta la popolazione fosse ebraica, [anche se ancora oggi] all’estero, si deve fornire una prova [della conversione]. A mio avviso, questa è una base sufficiente per permettere di seguire tale esempio in Israele ai giorni nostri poiché, di nuovo, possiamo riconoscere che la popolazione è ebraica nel suo insieme, come invece non è il caso all’estero. Se i rabbini della diaspora ritengono necessario comportarsi con più severità ed esigono una prova evidente dell’ebraicità o della conversione di una persona, in Israele, in uno Stato ebraico, è superfluo. Qui, tutta la popolazione è, di primo acchito, considerata ebraica. Se qualcuno afferma che è ebreo, gli si crede. Se qualcuno dichiara che si è convertito all’ebraismo secondo le regole, non si fanno indagini su di lui e non gli si chiedono delle prove ma lo si accetta come ebreo da tutti i punti di vista. Non è la stessa cosa all’estero, dove la maggioranza della popolazione è, a priori, non ebraica: lì sarà autorizzato a sposare un’ebrea solo se fornisce una prova della sua conversione secondo le regole. Inutile aggiungere che anche all’estero, alcuni Saggi sono meno rigorosi, in particolare tra i più giovani […].
C’è un altro fatto che non abbiamo dato ancora sufficiente rilievo: è che siamo in presenza di donne non ebree che non sono qui per allontanare i propri mariti e i propri figli dall’ebraismo e da Israele, ma che di loro spontanea volontà hanno accompagnato i mariti che immigrano in Israele e vi hanno portato i figli per vivere una vita ebraica. La maggior parte di loro […] sono state perseguitate, imprigionate e torturate dai [nazisti] durante la guerra e alcune hanno messo la propria vita in pericolo per salvare degli ebrei, per nasconderli, per sfamarli ed essere loro fedeli compagne nel periodo della disperazione. Queste donne pensano sinceramente di immigrare in Israele per diritto, non di essere accolte per pietà, e che i figli che hanno avuto dai loro mariti ebrei sono figli di Israele che ritrovano la propria patria insieme ai superstiti della Shoah, e che la ricostruiranno. In nome della Torah, i rabbini del mondo intero ci chiedono di separarci da loro e dai loro figli, di non riconoscerli come ebrei, di non amarli come dei gherim fino a quando non avranno fornito prove, soddisfacenti per rabbinato, della circoncisione e del bagno rituale. Per quanto mi riguarda, penso che, in nome della Torah, si deve esigere esattamente il contrario. Secondo la Halakhah, dei convertiti di cui tutti conoscono la stretta osservanza dei precetti, sono considerati ebrei, anche se non c’è nessuno che possa testimoniare davanti [a quale tribunale rabbinico] si sono convertiti. È vero che Maimonide prende come esempio in questo passaggio l’osservanza dei comandamenti della vita corrente (come il bagno rituale mensile delle donne, il prelievo della pasta lievitata, e altri) ma ciò che allora era una cosa normale adesso non lo è più. È più logico pensare che una donna convertita debba oggi essere giudicata per il suo comportamento generale, se assomiglia a quello delle altre donne ebree o alla loro maggioranza, e non se si comporta come la minoranza osservante. Secondo il midrash, Dio considera gli stranieri che si sono uniti a Israele di loro spontanea volontà, di un livello morale più elevato del restante popolo d’Israele. Troviamo menzionati insieme: “Il levita e il gher verranno per mangiare e si sazieranno”. Il commento del midrash aggiunge: “Mosè dice a Dio: per te il convertito è uguale al levita?”. Dio risponde: “È ancora più grande perché si è convertito disinteressatamente. Somiglia a un cervo che è cresciuto nel deserto e ha raggiunto di sua spontanea volontà il mio gregge, e non dovrei amarlo?”. Abbiamo cancellato e dimenticato il tono melodioso delle nostre fonti. Il nostro mondo è stato invaso da tendenze che hanno trovato la propria espressione nella frase ben nota: “I proseliti sono insopportabili per Israele quanto la pitiriasi”, su cui si allinea la posizione religiosa ufficiale. Ma il fatto è che questo non è lo spirito di Israele, e ne è prova che gli esegeti e i Saggi più importanti hanno cercato di addolcire questa immagine e di spiegarla in modo diverso: Maimonide ricorda episodi come quelli del vitello d’oro e dei sepolcri della bramosia, e dice che “l’accozzaglia di stranieri» esisteva alle origini: con questo vuole dire che è solo una lezione del passato, una specie di affermazione storica. Gli autori delle Tosafot vanno oltre: per uno di loro i convertiti, conoscendo molto bene i precetti e osservandoli coscienziosamente, sono insopportabili per Israele perché in questo modo Dio gli ricorda le sue colpe quando non si comporta secondo la sua volontà. Per un altro di questi autori del Medioevo, “i proseliti sono insopportabili per Israele quanto la pitiriasi” perché Dio, a ventiquattro riprese, ha proibito di imbrogliarli e perché è impossibile non affliggerli! Secondo una terza versione, Israele è in esilio a causa dei proseliti: perché Israele è disperso tra i popoli? Perché i proseliti si uniscono a lui! […] Dio non dichiarò inadatta nessuna creatura, al contrario, egli accetta tutti: le porte si aprono in qualsiasi momento e qualsiasi persona che voglia entrare è la benvenuta, come è detto: “Aprite le porte: entri il popolo giusto che mantiene la fedeltà”. Non è scritto che entreranno i sacerdoti, i leviti e il resto [delle tribù] di Israele ma che entrerà “un popolo giusto”.
Resto come sempre a Sua completa disposizione