fratellanza…

La Torah (Shemòt, 4; 14) ci racconta che nel momento in cui Moshè prova a rifiutare l’incarico di guidare il popolo ebraico viene rassicurato dall’Eterno che Aròn, suo fratello maggiore, gli sarebbe andato incontro ed avrebbe gioito nel suo cuore. Probabilmente l’umile Moshè non vuole usurpare il ruolo di leader che, a suo avviso, sarebbe dovuto andare al fratello. In fondo Aròn è più vecchio di lui, non si è mai spostato dall’Egitto condividendo con il popolo la persecuzione, parla meglio di lui. Proprio in virtù di questa gioia nel cuore per l’investitura di Moshè, Aròn avrà il merito di portare nel suo cuore “tutti i nomi dei figli di Israele” (Shemot, 28; 30) incisi sulle pietre incastonate sul pettorale del giudizio attraverso i quali, come Sommo Sacerdote, interpretava la volontà dell’Eterno.

Con un mirabile paradosso la Torah usa, per entrambe i passaggi, la stessa espressione “al libò”, “sul suo cuore”. Questi stessi nomi dei figli di Israele si trovano sul petto, ma anche sul dorso del Sommo Sacerdote, come ad indicare che chi fa mostra dei figli di Israele ne deve, al contempo, sostenere il peso e la responsabilità sulle spalle. Il pettorale e il dorsale erano legati da bretelle che, anche quando il Sommo Sacerdote si spogliava di questi indumenti, non potevano essere mai slegate. Sarà quindi Aròn a rappresentare nei suoi abiti quel legame indissolubile tra onere e onore in ragione della sua capacità di gioire per il successo di un proprio fratello. Ci viene solitamente più naturale essere solidali nel dolore e nella disgrazia. Moshè e Aròn ci insegnano che la vera sfida è quella di riuscire ad affratellarsi nella gioia.

Roberto Della Rocca, rabbino

(11 febbraio 2014)