“Dalla Costa, messaggio ancora vivo”
Arcivescovo di Firenze negli anni più difficili, Elia Dalla Costa (1872-1961) fu tra i coordinatori della rete di assistenza clandestina che al fianco della Delasem contribuì a mettere in salvo centinaia di perseguitati ebrei braccati dal regime. A un anno e mezzo dall’ingresso tra i Giusti tra le Nazioni, il pastore di origine vicentina sarà tributato domani del massimo riconoscimento dello Yad Vashem con la consegna, alla Curia fiorentina, della medaglia fatta emettere dal Memoriale della Shoah di Gerusalemme. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Betori, cardinale e arcivescovo del capoluogo toscano.
Cardinale, quale valenza ha questo momento per la Curia fiorentina e per lei personalmente?
La grandezza del cardinale Dalla Costa è un dato acquisito per la coscienza della Chiesa cattolica fiorentina, che lo ha proposto alla beatificazione, come pure per la coscienza della città di Firenze, che sa quanto gli deve per la sua opposizione al nazifascismo e per l’opera di ricostruzione civile dopo la guerra. Non va però sottovalutato come il riconoscimento che Yad Vashem dà alla sua azione a favore degli ebrei perseguitati dal nazismo ne illumini ulteriormente e decisivamente la figura. Va anche evidenziato che, con questo riconoscimento, si pone in luce la trama creata dall’autorevolezza del cardinale Dalla Costa grazie alla quale è stato possibile a non poche persone a Firenze, religiosi e laici, di esprimere in gesti concreti la loro accoglienza e solidarietà verso il popolo ebraico.
Che cosa rappresenta la figura di Dalla Costa per Firenze? Quale messaggio ci viene dal suo lungo magistero, quale lezione trarre dal suo coraggio?
La memoria del cardinale Dalla Costa è anzitutto legata alla chiarezza del suo magistero, come pure al fondamento spirituale e biblico della sua predicazione. Personalmente ritengo che proprio questa sua profonda spiritualità biblica abbia potuto aprire la mente e il cuore di un vescovo cattolico, per altri aspetti legato alle forme tradizionali della vita ecclesiale, alla comprensione del legame religioso privilegiato che i cristiani hanno con il popolo d’Israele. Ritengo che proprio questo fondamento spirituale della sua coraggiosa scelta di mettere a rischio se stesso e la comunità cattolica fiorentina sia il più prezioso insegnamento che ci viene dal cardinale. Una forte identità di fede è capace di generare scelte eroiche. Non da meno è poi l’anticipazione che in questo comportamento possiamo scorgere rispetto alla stagione del dialogo che solo il Concilio Vaticano II aprirà a livello di Chiesa universale tra cattolici ed ebrei e che oggi felicemente viviamo, anche qui a Firenze.
Dalla Costa fu al vertice di una rete di soccorso e assistenza che si rivelò decisiva nel salvataggio di molte centinaia di perseguitati e che vide il coinvolgimento di numerosi esponenti del clero fiorentino. Crede che vi sia sufficiente consapevolezza di questi fatti nell’opinione pubblica?
Probabilmente, al riconoscimento generico della grandezza del cardinale Dalla Costa non corrisponde tra la nostra gente a Firenze un’adeguata conoscenza della sua azione sia pastorale che civile. Proprio per questo la nostra arcidiocesi, nel cinquantesimo anniversario della sua morte, avvenuta il 22 dicembre 1961, ha voluto pubblicare ben due biografie del suo antico pastore. Mi auguro che il conferimento della medaglia di Giusto tra le Nazioni offra un’ulteriore occasione di approfondimento di quanto egli ha fatto e delle motivazioni che lo hanno guidato.
Lei è stato promotore di una mostra, “Elia Dalla Costa, l’uomo e l’immagine”, che ha segnato un momento fondamentale nell’incontro tra la città e il cardinale. Pensa ad altre iniziative che possano celebrarne la memoria, anche in considerazione del riconoscimento dello Yad Vashem?
La mostra a cui fa riferimento ha accompagnato le due iniziative editoriali che ho appena richiamato. Essa ha avuto una bella risposta dalla città, che nella interpretazione della figura del cardinale offerta da tre grandi artisti (Antonio Berti, Oskar Kokoschka, Luciano Guarnieri) ha avuto modo di interrogarsi sulla sua dimensione interiore in tre diverse fasi della sua vita. In quella occasione ebbi modo di scrivere: “Nella figura di Elia Dalla Costa, uno dei grandi vescovi del Novecento, era facile riconoscere la forte corrispondenza tra la forma esteriore del suo porsi di fronte agli altri e la densità di un’esperienza spirituale non comune che si riverberava nel saldo contenuto di verità e di fede trasmesso dal suo magistero e nel governo pastorale”. Di quest’ultimo ambito è parte integrante la sua opera a favore degli ebrei perseguitati. Ora la Chiesa fiorentina si sta preparando a vivere il decennale Convegno delle Chiese italiane che metterà a tema l’umanesimo cristiano. Auspico che in questo contesto si possa offrire ai partecipanti al convegno la testimonianza del cardinale come un’esemplare espressione di questo umanesimo aperto al mondo.
La storica Anna Foa ha recentemente scritto sull’Osservatore Romano che, nei conventi e negli istituti religiosi in cui si diede assistenza ai perseguitati, “una familiarità nuova e improvvisa, indotta senza preparazione dalle circostanze, in condizioni in cui una delle due parti era braccata e rischiava la vita ed era quindi bisognosa di maggior ‘carità cristiana’, non sia stata senza conseguenze sull’avvio e sulla recezione del dialogo”. Concorda con questa lettura? Cosa è cambiato da allora e su quali binari ritiene stia procedendo il dialogo ebraico-cristiano?
È fuori di ogni dubbio che il passaggio epocale che il Concilio Vaticano II ha introdotto nei rapporti tra ebrei e cristiani sul piano dottrinale non sarebbe stato possibile senza la concreta esperienza di vicinanza, conoscenza e fraternità che è maturata in molti luoghi, non da ultimo a Firenze grazie al cardinale Dalla Costa e al rabbino Cassuto, nel corso della tragica esperienza della Shoah. Dottrina e vita hanno camminato insieme, come deve essere se una dottrina non vuole astrarsi dalla storia e se una vita vuole avere un saldo fondamento di verità. Dalla tragedia del Novecento e dal cammino dottrinale di questi ultimi cinquanta anni è scaturito un atteggiamento nuovo di riconoscimento reciproco e di amicizia, che ora ci impegna tutti.
Adam Smulevich, Pagine Ebraiche, marzo 2014
(25 febbraio 2014)