Cinema – Gitai, architettura di famiglia

amos-gitai“Non è un film, è un film di Amos Gitai”. La giornalista Irene Bignardi si smarca dal rischioso tentativo di dare una definizione di Lullaby to My Father, l’opera in cui Gitai racconta a modo suo la storia del padre, Munio Weinraub, architetto del Bauhaus a cui Israele deve molto. Piani comunicativi diversi si intrecciano nell’arco degli 87 minuti di pellicola: fotografia, recitazione, poesia, letture in ebraico, francese, tedesco, suoni sconnessi dall’immagine. L’opera di Gitai risulta un tributo al padre così come uno spunto di riflessione su orizzonti che toccano la Germania nazista fino al nascente Israele. E una delle chiavi di lettura non poteva che essere l’architettura, filo conduttore tra padre e figlio (prima di diventare uno dei registi israeliani più apprezzati, Gitai aveva infatti seguito le orme di Munio). Tema, incrociato alla situazione dell’attuale Israele, su cui ha riflettuto ieri il regista alla British School di Roma per il quarto appuntamento del programma Meeting Architecture – L’architettura e il processo creativo. L’evento, presentato da Irene Bignardi, è stato organizzato con la collaborazione del dipartimento cultura dell’ambasciata di Israele e dell’Accademia di Francia a Roma.
Nel richiamare il passato di suo padre, imprigionato nel 1933 dai nazisti per “tradimento del popolo tedesco” e poi riuscito a fuggire nella Palestina mandataria, Gitai ha riflettuto sul ruolo politico dell’architettura, sul suo impatto sociale. “Non è un caso – spiega il regista, laureatosi in architettura a Berkley con un progetto sulla Galilea – se i nazisti decisero di chiudere la Bauhaus School di Dessau prima ancora che le scuole di filosofia”. Il modernismo di quello che Munio Weinberg non definiva uno stile ma “un modo di lavorare” era considerato dai nazisti una minaccia. “Una moderna, armonica e vivibile architettura è il segno visibile di un’autentica democrazia”, affermava Walter Gropius, padre della Bauhaus e primo direttore della scuola di Dessau. Una democrazia di cui Israele iniziò a costruire le fondamenta nel periodo dello yishuv (primi insediamenti ebraici nella Palestina del mandato britannico) e in cui arrivò Munio Weinberg, con il suo bagaglio di insegnamenti, di lezioni apprese da Gropius e Kandiskij, e di una visione innovativa che gravitava attorno alla necessità di progettare spazi vivibili, coerenti con il territorio. Altro rispetto alla pomposità imponente e minacciosa di Albert Speer che Munio si lasciava alle spalle nella Germania di Hitler o dell’architettura fascista ispirata alla monumentalità. “Un piccolo gruppo di uomini, di architetti arrivati dall’Europa in Israele ebbe la fortuna – sottolinea nel suo intervento Gitai – di esprimersi liberamente, anche perché i politici erano impegnati a costruire altro per il Paese”. E così costruirono seguendo la propria filosofia, paradossalmente per un pubblico più provinciale di quello dei loro paesi di origine. “La maggior parte degli immigrati erano ebrei dello Shtetl”, ricorda l’autore di film pluripremiati come Kippur, Kedma e Free Zone. Il suo giudizio dell’architettura post ’67 è invece molto negativo, almeno di quella applicata nei territori conquistati dopo la Guerra dei Sei Giorni che Gitai definisce “brutale”. “Non voglio dare un giudizio politico sulla questione degli insediamenti ma mi chiedo come mai i coloni accettino di vivere in edifici che distruggono la bellezza di un territorio che rivendicano di amare”.
Riflessioni architettoniche dovute all’intreccio con il suo passato ma anche ai collegamenti che l’architettura stessa ha con il mondo cinematografico. “Quando mi invitano nelle scuole di regia e mi chiedono cosa bisogna fare per iniziare questa carriera, rispondo: studiate architettura”. Secondo Gitai la scuola di vita migliore per imparare a sopravvivere come artisti alle pressioni, alla gestione di tematiche socio-politiche, al rapporto con i finanziatori, tutti ostacoli che si presentano, nelle diverse fasi di progettazione, all’architetto.
Prossimo progetto di Gitai, un lungometraggio tratto da una storia di Aharon Appelfeld, grande scrittore israeliano sopravvissuto alla Shoah. E proprio la Memoria sarà il tema del film del regista, progetto che dovrebbe essere finito per l’estate.

Daniel Reichel

(5 marzo 2014)