L’Europa e il continente populista
Passo dopo passo ci avviciniamo alla data delle elezioni per il Parlamento europeo. In ragione delle disposizioni contenute nel Trattato di Lisbona l’organismo legislativo sovranazionale potrà contare, a partire dalla sua prossima legislatura, di poteri e funzioni aggiuntive. Siamo lontani, va da sé, dall’avere a che fare con un parlamento così come tradizionalmente lo intendiamo, poiché il suo ruolo è vincolato alla persistenza delle sovranità nazionali. Non di meno, nei macchinosi e complessi meccanismi decisionali dell’Unione europea, di cui il Parlamento dovrebbe costituire l’espressione della “volontà popolare”, i percorsi, i processi e i protagonisti che portano a quegli atti di volontà che ricadono poi sulle collettività nazionali, mutandone gli indirizzi di fondo, sono spesso avocati a altri organismi. A partire dalla Commissione, una sorta di esecutivo in pectore, e dalla ramificata burocrazia interna alla struttura istituzionale comunitaria. Dopo di che, i risultati delle elezioni europee, ancorché da molti a tutt’oggi sottovalutati, ossia ritenuti come prove secondarie, scarsamente rilevanti della concreta rappresentatività nazionale delle liste, dei partiti e dei candidati che vi si presentano, sono invece destinati ad avere un’incidenza di lungo periodo. Di fatto costituiscono il termometro delle società, ne registrano gli andamenti rispetto ad una serie di temi e di problemi che, nel corso degli ultimi anni, si sono fatti sempre più stringenti. La progressione nel processo di unificazione, infatti, ha reso di attualità molte questioni che fino a una legislatura fa potevano ancora sembrare secondarie. Il fatto stesso che la verifica elettorale stia assumendo la natura di banco di prova rispetto alla credibilità dell’Europa, ossia del progetto di Unione europea, messo a duro riscontro con gli effetti di una crisi sociale ed economica che sta mutando il volto delle comunità nazionali che vi sono coinvolte, è di per sé il segno di un netto mutamento di registro. In poco tempo sentimenti, pensieri, atteggiamenti e quindi priorità, che attraversano l’elettorato comunitario si sono radicalizzati. Le tensioni indotte dalla grande crisi si sono da subito incontrate con le perplessità, nutrite da un ampio numero di cittadini, sulle responsabilità che andrebbero attribuite all’Europa medesima che, dal momento in cui sottrae risorse e spazi di autonomia alle singole nazioni non offre contropartite sufficienti. In altre parole, sempre più spesso pare che ci si debba pronunciare plebiscitariamente a favore o contro l’Unione medesima. E soprattutto di quello che, a torto o a ragione, è visto come il suo prodotto più diretto e quindi genuino, in quanto espressione delle sue vere intenzioni, ossia l’euro, la moneta comune. Su questi temi le forze politiche si sono variamente orientate, tutte però accomunate da un atteggiamento che anche solo una certo numero d’anni fa sarebbe parso secondario, se non irrilevante, ossia l’esprimersi obbligatoriamente riguardo alla produttività o meno dell’integrazione europea. A ciò indotte, peraltro, più dalle sollecitazioni del loro elettorato, di cui cercano di captarne il voto, che non da convincimenti propri. Sugli elementi correlati e di immediato riflesso di tale questione si è quindi andato articolando, in tutti i paesi dell’Unione, un insieme piuttosto eterogeneo e variegato di forze che del cosiddetto euroscetticismo ha fatto la sua matrice più autentica. Si tratta di un insieme di opinioni e posizione politiche che giudicano l’Unione come causa o moltiplicatore della crisi e non come strumento per la sua soluzione. Non infrequentemente tali forze coincidono con quelle organizzazioni politiche che, a vario titolo, possono essere qualificate (o tacciate, a seconda dei punti di vista) di populismo. In realtà, il fronte degli euroscettici è ben più ampio di quello populista, se quest’ultimo viene fatto coincidere con i temi specifici di cui il populismo tradizionale è espressione: la cosiddetta democrazia diretta; il rapporto immediato, senza filtro, tra leader e collettività; la concezione del «popolo» come di una specie di oracolo che non può mai sbagliare; la diffidenza nei confronti delle élite sociali, culturali ed economiche, identificate come casta; l’antintellettualismo e il rifiuto della comprensione della complessità dei processi decisionali. A buon titolo, infatti, sono perplessi rispetto all’euro come a diversi aspetti del percorso di unificazione continentale, i conservatori britannici di David Cameron, i democratico-sociali bavaresi, parti consistenti della destra storica, liberale, presenti in tutti i paesi dell’Unione. In quest’ultimo caso, tuttavia, è forse meglio parlare di eurocritici, non rifiutando a priori tutta l’intelaiatura dell’unificazione ma parti di essa. Dopo di che, operate le dovute distinzioni, rimane il fatto che in tutta probabilità nella prossima legislatura europea, quella che nascerà con il voto del 25 maggio, una consistente quota di eletti tra coloro che siederanno tra Strasburgo e Bruxelles, rappresenterà forze che, a vario titolo, guardano con perplessità – se non con indisponibilità – all’Unione europea. Un vero e proprio paradosso in sé, ma con il quale ci si dovrà confrontare permanentemente. I sondaggi d’opinione si susseguono, avvicinandosi la data del voto. Attualmente, ossia nella vigente legislatura, quella uscente, le formazioni politiche che si posizionano sul versante della critica all’Unione contano 164 seggi dei 766 disponibili. I rilevamenti di Open Europe, agenzia inglese di monitoraggio e studio del processi di integrazione, attribuisce a tali gruppi un gradiente elettorale di circa il 30 per cento. Portando a quasi 250 i seggi che potrebbero essere così occupati. Non di meno, se si coniuga tale prospettiva con l’altissimo tasso di astensione dal voto (alle prime elezioni europee, quelle del 1979, aveva partecipato il 62 per cento degli aventi diritto; nel 2009 solo il 43 per cento si è recato alle urne) il quadro che viene fuori è quello di un Parlamento di minoranza dove, in tutta plausibilità, solo un quarto degli elettori europei esprimerebbe il suo assenso per l’indirizzo assunto dai processi di integrazione. A tirare verso l’alto i risultati delle forze che di più e meglio rappresentano le componenti euroscettiche, nazionaliste e populiste, sono il Fronte nazionale di Marine Le Pen, che potrebbe risultare la prima formazione politica nel suo paese, e il Partito della libertà dell’olandese Gert Wilders. Nel suo complesso, è possibile che la destra radicale o comunque non liberale possa arrivare ad eleggere, in tutta l’Unione, un centinaio di parlamentari. Tuttavia, il riferimento alle tradizionali famiglie politiche si fa più difficile se si pensa che sul tema dell’Europa il tasso di scomposizione e ricomposizione è tale da fare sì che elettori e candidati di diverse origini si incontrino su un terreno fino a non molto tempo fa impensabile. In Italia l’attenzione è rivolta al Movimento cinque stelle, che è divenuto un vero e proprio catalizzatore della protesta, sommando su di sé temi tipici della sinistra tradizionale come della destra. La trasversalità, infatti, nel nome del rifiuto dell’euro, è il vero asso nella manica di questi gruppi. Laddove tuttavia il marchio di fondo, malgrado i mutamenti di aspetto anche significati della forma della propria comunicazione politica, rimane quello che rinvia alle concezioni tradizionali della politica così come è vista dalla destra non liberale. I temi della paura, dell’ossessione per l’invasione degli immigrati ma anche dell’Europa come “comitato d’affari”, come prodotto del cinico calcolo d’interessi delle banche e della “speculazione internazionale” si incrociano così con la sensazione, molto diffusa tra i cittadini europei, di essere stati espropriati della propria capacità decisionale così come del futuro. In un’età di marcata globalizzazione, alla solitudine dei molti si accompagna il ripiegamento sul proprio particolare, sul localismo inteso come unico orizzonte di autenticità. Il populismo sfrutta e alimenta questo comune sentire. Dinanzi alla crisi dei territori, degli insediamenti economici tradizionali, dell’azione – a tratti sconvolgente – dei processi di globalizzazione, della delocalizzazione delle produzioni, ripropone l’idea di una responsabilità dei gruppi dirigenti, soprattutto di quelli politici, a partire dall’Europa, colpevoli di avere abbandonato le popolazioni al loro destino per curare i propri interessi. Il tema del “tradimento”, ai danni del “popolo”, al quale si dovrebbe rispondere ripristinando le prerogative, altrimenti offese, della sovranità nazionale, attribuendo inoltre ad esse i caratteri della democrazia diretta, senza filtri di rappresentanza, diventa così il filo rosso che accompagna formazioni politiche e posizioni molto eterogenee. Più che costituire una concreta minaccia agli equilibri continentali questo approccio ha però tutti gli elementi dell’autoinganno. Diventando l’illusoria scialuppa di salvataggio per quella sempre più consistente parte della collettività che, soffrendo gli effetti di progressiva marginalizzazione causati dalla crisi, risponde ad essi inseguendo false soluzioni, tanto rassicuranti in quanto slogan quanto improbabili come proposte politiche.
Claudio Vercelli
(4 maggio 2014)