Da Lisbona a Livorno

Francesco Moisés BassanoIl Portogallo post-Salazar rispetto ad altri stati centroeuropei non è, fortunatamente, noto per gravi episodi di antisemitismo, il suo penultimo presidente Jose Sampaio, vanta origini ebraiche e in tutto il paese si assiste ad un continuo interesse verso il proprio retaggio ebraico e marrano rimasto sepolto per lungo tempo. Eppure, quando la scorsa estate sono stato a Lisbona, ho girato invano più volte tra Rua Herculano e Largo do Rato prima di scoprire che la Sinagoga cittadina Shaare’ Israel si trovava effettivamente nascosta in un cortile interno tra le due vie, chiusa alla vista da alti cancelli sorvegliati da telecamere.
In realtà, come ho appurato in seguito tramite il web, la posizione invisibile della Sinagoga non ha niente a che vedere con l’antisemitismo, almeno non con quello attuale: quando nel 1902 il tempio fu costruito, vigeva una legge che proibiva la costruzione di edifici religiosi acattolici che si affacciassero direttamente sulla strada.
Sarò abituato alla mia città, dove la Sinagoga dietro il centrale Duomo si scorge già camminando da una delle principali arterie, ma la Livorno “delle nazioni” è un caso quasi unico, e invece la cattolica Lisbona non è un’eccezione, in buona parte d’Europa i luoghi ebraici, anche quelli di indubbio pregio storico-architettonico, sono scarsamente segnalati e ovunque sono protetti da recinzioni, da telecamere, e da altri servizi di sorveglianza, per accedere alle consuete funzioni è ormai di norma presentare un documento e le proprie referenze, quasi come al passaggio di una frontiera tra due stati. Prevenzioni non certo derivanti da eccessive paranoie o da un rifiuto di un contatto con l’esterno, ma scaturite dal pericolo reale di atti vandalici, o attacchi terroristici, come quello avvenuto qualche settimana fa al Museo Ebraico di Bruxelles, che mettono sempre più a serio rischio la sicurezza degli ebrei europei, e la loro stessa presenza nel vecchio continente.
Un recente articolo di sul Jewish Forward, dal titolo “Have the Jews Lost Europe?” sosteneva come questo senso di insicurezza – che coinvolgerebbe più del 40 per cento degli ebrei francesi, belgi ed ungheresi – fosse adesso accentuato anche dal successo nelle ultime elezioni europee di partiti di estrema destra o euroscettici: “Se gran parte di queste tendenze politiche non sono esplicitamente orientate verso sentimenti antiebraici – spiega l’articolo –, potrebbero incoraggiare altresì un atteggiamento meno tollerante verso le minoranze, e alimentare quindi una xenofobia che ricerca capri espiatori nei momenti di insicurezza politica ed economica”. Laddove tutt’oggi la preoccupazione maggiore proviene soprattutto dal pericolo del pur sempre avulso terrorismo islamico, rimarrebbe un’incognita come verrebbe affrontata, in ipotetici governi guidati da tali partiti (i quali sovente hanno all’interno individui che danno credito ad assurde teorie del complotto) il tema della sicurezza e della protezione dei luoghi ebraici, degli ebrei stessi, come di altre minoranze. Paradossalmente, l’integralismo islamico sembra poi esistere e progredire in sintonia, se non in simbiosi, con queste nuove realtà politiche, entrambe hanno bisogno l’uno dell’altro per crescere e raccogliere consensi. Se come ha ben scritto l’opinionista della Stampa, Pierluigi Battista, non siamo capaci di riconoscere il nuovo antisemitismo se non riprendendo le stesse categorie interpretative di sempre, tentando di scorgerci gli spettri di un passato remoto o vicino, al tempo stesso credo che non siamo neanche capaci di comprendere la reale dimensione e impronta del fanatismo islamico o cosiddetto jihadismo e del corrispettivo odio-antiebraico, se non percependolo come un indistinto continuum con l’Islam dell’espansione e con la Dhimmitudine, o più lontanamente cercando qualche riscontro nel Corano e in altri testi. Un fenomeno, che ha sì come naturale le proprie radici nella storia e in alcune correnti della religione islamica, ma che è sostanzialmente socio-politico, che si nutre e scaturisce dalla post-modernità, fiorisce nell’emarginazione e nel degrado delle periferie d’Europa, e qui adotta molti dei modelli e delle forme che la nostra società ha “inconsapevolmente” prodotto – le sparatorie di Tolosa e Bruxelles potrebbe ricordare quasi una partita al gioco GTA della PlayStation, con la stessa impassibilità e con lo stesso distacco.
Non so se la ragione di questi sintomi e della crisi del nostro sistema multiculturale, siano riscontrabili come potrebbe forse sostenere un conservatore straussiano, proprio nel fallimento di un certo relativismo culturale e del liberalismo moderno dominante, o se al contrario le cause siano esclusivamente da ricercare nella politica coloniale e “imperialista” che l’Occidente ha perseguito per oltre sei secoli. I fattori sono tuttavia molteplici e variabili, in parte più complessi, senza trascurare poi un’immaturità ed inadeguatezza di fondo dell’uomo nell’affrontare e nell’adeguarsi ai cambiamenti repentini, e nel comprendere le differenze insite in ogni individuo e in ogni cultura. Una riflessione che porti ad una lucida e scrupolosa auto-critica è comunque urgente, scaricare tutte le responsabilità su qualcosa apparentemente “lontano” da noi, per definire e circoscrivere i nostri ipotetici “nemici” a cui dichiareremo battaglia, sarebbe invece soltanto controproducente. Dimenticando che il mondo non si divide semplicemente tra amici e nemici, e che quelli che talvolta consideriamo amici, sono sovente il rovescio dei nostri nemici.
E infine, alla domanda introdotta precedentemente, “se gli ebrei abbiano perduto l’Europa”, mi chiederei invece se non sia l’Europa che stia perdendo gli ebrei, e così anche il prezioso lascito culturale apportato da essi e dai molti intellettuali ebrei o non-ebrei. O come sia potuto accadere che la culla delle civiltà classiche, dell’Illuminsmo e dei diritti individuali, sia nuovamente sprofondata nei propri “secoli buii”, diventando il focolare dell’intolleranza e degli estremismi, dove alcuni dei suoi abitanti si trovano costretti a convivere con la continua paura di professare il proprio culto, di celare la propria identità, o appunto di recarsi in un luogo comunitario.

Francesco Moises Bassano, studente

(13 giugno 2014)