Il cuore della memoria

vercelliLe poche righe che seguono vogliono richiamarsi a quanto già scritto dall’amico Alberto Cavaglion nei giorni scorsi, nel suo ultimo ticketless. L’oggetto della sua comunicazione era l’ultimo libro di Luca Rastello, scrittore, giornalista e studioso, noto a Torino e non solo. Autore generazionale, non nel senso anagrafico del termine ma per la capacità di cogliere lo spirito dei tempi senza indulgere in moralismi di sorta. Il titolo del suo volume, I buoni rimanda non a quell’atteggiamento pseudo-morale e falso-intellettuale che si suole sbrigativamente qualificare come buonismo, termine invero assai inflazionato ed abusato in questi anni per definire una pluralità di condotte, bensì ad un habitat di persone, più o meno note alle cronache, e da queste ultime spesso favorevolmente celebrate come gli aedi della coscienza collettiva, nonché a condotte che nel nome di un universalismo di valori in realtà tutelano, a conti fatti, gli interessi particolari di coloro che le pongono in essere. Rastello non ha vocazione iconoclasta, non indulge nella facile denuncia, men che meno si sognerebbe di esercitarsi in qualcosa di anche solo sottilmente offensivo se non addirittura diffamatorio. Non ha conti da regolare, come invece qualcuno ha insinuato. Piuttosto, osserva lo stato dell’arte, per così dire. Tirandone le somme. Da ciò deriva la sua diagnosi, ossia che l’uso ossessivo delle cause umane e umanitarie, sottilmente piegate a logiche di autopromozione, sia in realtà il prodotto del combinato disposto tra la cosiddetta “morte delle ideologie” (alle quali si sono sostituite petizioni di valore tanto generiche quanto volutamente inconcludenti), l’egemonia di una cultura sociale che, nel rimandarsi al cattolicesimo (inteso non come religiosità bensì in quanto concezione dei rapporti sociali), enfatizza il ruolo del volontariato, trasformandolo in volontarismo, e il risultato di una cristallizzazione di una società, la nostra, dove i ruoli sono consegnati all’immobilismo, ossia alla immodificabilità delle posizioni chiave e alla loro resa in termini di visibilità mediatica. Altro ancora entra in circuito ma il trend dominante si basa sui pochi assi or ora enunciati. In questo circuito delle buone intenzioni manifeste, che alimentano e macinano interessi latenti, o scarsamente confessabili, entra anche la questione – che ci chiama in causa – dell’uso della memoria. Di “quella” memoria, ossia della deportazione e dello sterminio. Ci siamo impegnati ripetutamente affinché divenisse elemento di dominio pubblico, costituendo parte integrante di una piattaforma di pedagogia civile capace di contribuire a rigenerare gli anticorpi al declino delle democrazie, laddove quest’ultimo dovesse ancora rivelarsi. L’Europa di oggi, peraltro, ci dà ragione, al riguardo. Purtroppo. Un motivo in più, quindi, per non plaudire indiscriminatamente, preventivamente e acriticamente, ad ogni cosa che rimandi al ricorso alla memoria della Shoah come se questa fosse una sorta di brand da usare a prescindere. Rastello, nel suo libro, ci induce a ragionare anche su questo aspetto. Che, segnatamente, è oramai parte integrante di qualsiasi percorso di trasmissione del senso e dei significati del passato che non voglia involvere in una sorta di giustapposizione di dichiarazioni di principio, alle quali ricorrere risparmiandosi qualsivoglia riscontro di rigore ed effetto. L’autore ha grande confidenza, anche per il suo percorso professionale, con il discorso sulla mafia e su quello, che con acuta preveggenza, in ciò non solo incompreso ma anche volutamente frainteso, un grande italiano come Leonardo Sciascia definiva i “professionisti dell’antimafia”. Tema, quest’ultimo, delicato, che i milanesi di almeno un secolo prima, quelli che avevano partecipato per davvero alla sollevazione delle “cinque giornate” del 1848, solevano definire d’abitudine come gli “eroi della sesta”. Ennio Flaiano chiosava sarcasticamente dicendo che gli italiani amano fare le barricate ma con i mobili degli altri. Che andare tutti ad Auschwitz sia l’antidoto alla barbarie ne corre. Che Auschwitz, ovvero la coscienza di ciò che ha tragicamente costituito per l’Europa (e non solo), sia «di tutti» non è una premessa ma una conseguenza, qualora si sappia ancora lavorare bene in tale direzione. Un lavoro che non finirà mai, non avendo un punto ultimativo. Cosa, quest’ultima, che quindi non rinvia al professionismo politico e neanche al sentimentalismo calcolato di cui certuni già da tempo si sono fatti profittevoli agenti e titolari. A ciò, per quanto ci riguarda, il libro di Rastello induce a riflettere. Tra treni della memoria che, in alcuni casi (non in tutti, sia ben chiaro), rischiano di portare inconsapevoli astanti a fare la “gita a Cracovia” (sentito con le mie orecchie), non senza risparmiarsi una foto di gruppo sorridente sotto la scritta Arbeit macht frei (vista con i miei occhi). La memoria è come un cuore pulsante, che conosce stagioni diverse, e trasmuta con chi se ne fa carico. Non va lasciata a un qualche defibrillatore semiautomatico.

Claudio Vercelli

(22 giugno 2014)