Qui Firenze – Mercati e valori. Interrogarsi sull’età del gusto
In Italia vengono pubblicati circa 750 libri l’anno sulla cucina, il cibo e il buon mangiare. La cucina italiana è famosa in tutto il mondo, ma quante delle pietanze che tutti conoscono come italiane sono davvero tali? E come mai oggi si parla tanto di cibo? Questi alcuni interrogativi affrontati insieme al giornalista Alessandro Marzo Magno, autore de “Il genio del gusto – Come il mangiare italiano ha conquistato il mondo” (Garzanti) nel corso del seminario Mercati e valori, organizzato dalla redazione dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità di Firenze.
Edward Gibbon racconta, in Declino e caduta dell’impero romano, di una società che cucinava ossessivamente, e probabilmente l’attuale attenzione per il mangiare dipende da un lato dalla crisi economica e dalla depressione che investe la società occidentale odierna e che porta a chiudersi in casa e cucinare per impiegare il tempo, risparmiare e soddisfare i sensi, dall’altro dalla parallela ricerca di identità e di un recupero delle tradizioni, tanto più ampia quanto maggiore è la perdita di memoria storica.
Miti sul cibo italiano spesso in realtà inventati – racconta Alessandro Marzo Magno, non a caso in Italia nella seconda metà dell’Ottocento in un’ottica nazionalista di costruzione della nazione in cui si cercano cibi rappresentativi per il Paese, più che scoprendoli inventandoli: italiani non sono in realtà la pizza (conosciuta da millenni in tutta l’area mediterranea), il riso o la pasta, e la costruzione gastronomica della nazione passa attraverso l’invenzione della tradizione, alla Hobsbawm e Ranger.
Così si sfata anche il mito della pietanza italiana per eccellenza, gli spaghetti: chiamati fino al primo ottocento vermicelli, acquistano un nome più accattivante nel momento in cui iniziano a essere esportati per il mercato americano, ma la pasta secca arrivò in Italia con gli arabi che già la producevano in fabbriche palermitane almeno dal 1154. Tria, si chiamavano in siciliano, dal greco trion, ma li troviamo menzionati persino nel Talmud Babilonese (Hallah 57d, Beitza 60d) come itriot, איטריות , mentre testi ebraici francesi medievali del XI secolo già li identificano come vermicelli, una pietanza di cui si ha notizia nella cucina ebraica di Fez, in Marocco, nel XVI secolo.
E restando in ambito ebraico, probabilmente cibi quali il baccalà alla vicentina, cucinato nel latte, hanno origine ebraica: i cristiani non avrebbero mangiato insieme cibi ‘di magro’ come il pesce con cibi ‘di grasso’ quali il latte, assenti in determinati giorni. E le veneziane sarde in saor ricordano il pesce in carpione cucinato in tutta l’area mediterranea e non dissimile dal gefilte fish askenazita.
Cucina ebraica italiana e italiana ebraica insieme, ma a ben vedere dunque neppure tanto italiana: di italiano restano la conserva di pomodoro, inventata anch’essa alla fine dell’Ottocento con la nascente industrializzazione che fa del pomodoro lavorato uno dei simboli del bel paese, e…l’insalata.
Sara Valentina Di Palma
(27 giugno 2014)