Tea for two – Pensieri
Per tutto il week-end cerco di non pensare. Ho interrotto il libro di Oriana Fallaci che stavo leggendo; troppo angosciante, troppo pregnante. Me ne sono comprata uno di George Perec, non proprio la distrazione ideale, così ho virato su un genere melenso d’appendice. Finito Shabbat, ho acceso il cellulare e ricostruito tutta la conversazione delle mie migliori amiche, entrambe in Israele dopo l’aliyah, nella quale si parlava di un imminente attacco alle 9 di sera. Ho dovuto scorrere un centinaio di messaggi per capire che, per fortuna, le 9 erano passate e loro parlavano di divertenti facezie. Pericolo scampato. Fania Oz, professoressa e figlia dello scrittore Amos, a proposito dell’attacco annunciato ha scritto sulla sua pagina twitter: “Hamas è il tipico ragazzo israeliano, fa promesse, fissa la data, si presenta in ritardo e alla fine la cosa dura in totale due minuti”. Sorrido e penso a quanto possa essere vero. Ovviamente poi mando un messaggio a un typical israeli guy che si comporta decisamente così. Un israeli guy trapiantato in Italia che sembra non aver mai avuto a cuore nulla e che adesso è in prima linea per difendere il suo paese in tutte le lingue che conosce. Decido di vedere un po’ di tv spazzatura per continuare la mia filosofia del ‘non pensare per sopravvivere’, così inizio l’agghiacciante programma di canale 5 Temptation Island. Ma nemmeno questo funziona. La verità è che sono disperata, anche se non scrivo status su Facebook, anche se non ho installato la app che manda notifiche segnalando ogni missile che colpisce Israele. Sono distrutta al pensiero che Hamas tenga in ostaggio l’intero popolo palestinese. Perché odio vederli andare via dalle proprie case, odio vedere i volti distrutti. Odio questa situazione. Allora decido di passare la mia domenica ad ascoltare Eros Ramazzotti. Ma non serve. Dopo qualche minuto inizio a guardare video di israeliani che corrono ai ripari dopo il suono della sirena, così simile a quello delle ambulanze si lamenta qualcuno: una donna urla spaventata -sicuramente una turista – e qualcuno le grida “Sheket Chevre, silenzio” – sicuramente è uno di quelli che hanno combattuto qualche guerra e hanno la pelle spessa da sabra -. Le intima il silenzio e intanto indica dove rifugiarsi. Poi si vedono giovani, i giovani tel avivians, che proprio non riescono a non rispondere con la vita a chiunque tenti di ucciderli. Girano già in rete primi commenti per stemperare la tensione: “Ieri Hamas ha colpito alle 8 del mattino oggi alle 11, per fortuna non sono ancora diventati svizzeri”, “La cosa positiva della sirena? Ho scoperto di avere dei vicini strafighi”. I miei tel-avivians, non hanno nulla in comune con me: si buttano nelle danze senza riserve, fanno yoga, si stravaccano al bar, vanno a ballare nei club peggiori di Caracas, sembrano un po’ stralunati. Non posso non pensare a un qualche Ofir che suona la chitarra in spiaggia, a una Rachely con un fiore nei capelli, a un qualche Liron che fa il parrucchiere a una Lior che studia medicina. A Y. che si sta per laureare e che, quando ci lamentavamo della scarsità dei vestiti nei nostri armadi da dodicenni, non sospettava di dover fare due anni di esercito. A M. che ha fatto l’ayliah senza pensarci due volte. A J. che manda le foto dei vicini di casa sul pianerottolo in accappatoio.
Vorrei riuscire a sperare. Ma per il momento la testa scoppia, e purtroppo non solo quella.
Rachel Silvera, studentessa
(14 luglio 2014)