eredità…

Caratteristica principale di questo brano è una lunga elencazione di luoghi nei quali il popolo ebraico si è spostato nei quarant’anni di peregrinazione nel deserto. Tanta minuzia, che sembra essere molto maggiore di quanto necessario, necessita qualche approfondimento.
Una possibile spiegazione ci è offerta da una frase della Parashah seguente, nella quale leggiamo che Moshè era solito ripetere questa frase: “Ci vogliono undici giorni dal Chorèv (il monte della Rivelazione nel Sinai), tramite il monte di Se‘ìr, fino a Qadèsh Barnéa‘!”. Con questa frase Moshè ricordava al popolo che avrebbero potuto giungere in undici giorni dal Sinai ai confini di Israele, mentre in realtà occorsero ben quarant’anni. Quarant’anni di errori, di patimenti, di lutti, conseguenza delle colpe commesse nei confronti di Ha-Qadòsh Barùkh Hu’. Ricordare tutte le tappe significa ricordare ad ogni generazione a quali funeste conseguenze va incontro chi si oppone a D-o. Ma ricordare tutte le tappe può avere anche un altro significato, come ci indica il Midràsh: “La cosa assomiglia a un re che aveva un figlio malato e lo ha portato in un paese lontano per curarlo; durante il viaggio di ritorno, ad ogni tappa gli diceva: Qui hai avuto mal di testa, qui la febbre è calata…”. Ciò che questo Midràsh ci vuole insegnare è che nel viaggio verso la Terra di Israele dobbiamo innanzitutto vedere – e così doveva vedere il popolo – non un viaggio verso l’ignoto, bensì un ritorno a casa; non solo, ma l’esilio doveva essere terapeutico (Israele nasce in esilio), ed inoltre ogni tappa deve essere vissuta come una consapevolezza delle debolezze del passato, perché solo attraverso la consapevolezza delle debolezze e degli errori si impara ad amare veramente ciò che si stava per perdere ed ora si sta per riavere.
L’altro aspetto caratteristico di questa Parashah – a mio avviso connesso col precedente – è un’altra minuziosa descrizione: quella dei confini della Terra d’Israele. Anche la comprensione del motivo di questa precisione è affidata a un midràsh: “A che cosa assomiglia? A un re che aveva una splendida proprietà con un magnifico palazzo aperto ai quattro punti cardinali, con centinaia di stanze lastricate di pietre preziose dal pavimento al soffitto, e grandissimi giardini con fontane ed alberi da frutta profumatissimi, uccelli ed api e pavoni e scimmie, magnifici campi coltivati che producono tutto l’anno ed i relativi prodotti. Quando questo re ha detto a suo figlio che cosa gli avrebbe lasciato in eredità, si è dilungato a raccontargli le qualità di questa proprietà e quale vista si gode da ognuno dei punti di confine di essa”.
Questo midràsh non si limita a ricordarci le meraviglie della Terra d’Israele. Se accostiamo i due midrashìm, vediamo che sottendono ad un unico concetto: la Terra d’Israele è la casa del nostro popolo, che ne prende possesso quando è “guarito” e ne capisce le virtù quando è maturo per assumersene la responsabilità.
Ma l’accostamento dei midrashìm ci dà anche un altro piano di lettura: in ambedue i casi chi agisce è un re che si occupa con affetto e con cura del proprio figlio. Questo è ciò che Ha-Qadòsh Barùkh Hu’ fa con noi; sta a noi, però, maturare, guarire dai nostri mali, recuperare il senso del nostro rapporto con Lui e con l’eredità che ci dà. Quest’eredità non è solo la Terra d’Israele, bensì Israele tutto intero: quell’Israele che è fatto di terra, di Torah e di amore per ogni singolo ebreo. Se riusciremo a riappropriarci di questa nostra eredità, la storia passata non sarà passata invano, e ricordarne le tappe ce la farà sentire sempre più nostra.

Elia Richetti, rabbino

(24 luglio 2014)