J-Ciak – A Gerusalemme vince il cinema
Strano, per un festival. Se n’è parlato come forse mai prima e alla fine premi e premiati sono scivolati via sottotono. Non poteva però essere altrimenti per questo Jerusalem Film Festival, accompagnato fin dall’inaugurazione dall’incalzare del conflitto. Eppure, malgrado qualche defezione, gli allarmi che hanno contrappuntato alcune proiezioni e molti cambi in corsa (uno per tutti, la cancellazione del film d’apertura “Dancing Arabs” di Eran Riklis che avrà così la sua prima internazionale all’imminente Festival di Locarno), il programma è andato avanti. Nella migliore tradizione d’Israele, dove la vita coraggiosamente procede anche nei lutti peggiori. E nel segno del cinema, inteso nel senso più alto del termine, ha spiegato il direttore Noa Regev: in nome della prevalenza del pensiero e della riflessione contro la violenza che insanguina questi giorni.
“Il nostro non è stato un invito alla fuga. Alcuni mi hanno detto che invece di correre in un rifugio preferivano rifugiarsi tra i film, e non c’è niente di male. Ma il festival non è una scappatoia. E’ un luogo in cui la gente pensa e si emoziona, apre il cuore e la mente agli altri e al mondo. Ed è una cosa importante”.
Senz’altro i film vincitori sono un invito più che evidente alla riflessione. Il primo premio è andato ex aequo a “Ghett – The Trial of Viviane Amsalem”, diretto e intepretato da Ronit Elkabetz e scritto insieme al fratello Shlomi, e a “Princess”, debutto alla regia di Tali Shalom-Ezer. “Ghett”, film che conclude la superba trilogia composta dai fratelli Elkabetz sulla realtà degli israeliani di origini marocchine, narra la storia di Viviane, in lotta per ottenere il divorzio che il marito da anni le nega. Determinata a ritrovare la sua libertà, Viviane non si arrende mentre l’ambiguità del tribunale rabbinico disegna una vicenda in cui i suoi diritti finiscono in secondo piano (nell’immagine).
Il film, che ha vinto anche il premio del pubblico e il riconoscimento come migliore attore a Menashe Noy, è una “splendida evoluzione dei drammi di ambientazione giudiziaria – nota la giuria nella motivazione – e mostra la sottile continuità tra i giudici e le strutture della famiglia patriarcale”.
Più crudo il tema di “Princess”, che narra una storia di incesto e pedofilia (tema pare al momento assai sentito, al centro altri due film in concorso) fra una ragazzina e il patrigno. Per la giuria, con questo primo lungometraggio la giovane regista Tali Shalom-Ezer si propone come “una delle voci più forti e autentiche del cinema internazionale”, ma a livello di critica i pareri sono stati diseguali. “Princess” si è aggiudicato anche il premio per migliore attrice protagonista (Shira Hass), fotografia (Radek Ladzuk) e colonna sonora (Ishai Adar).
Tra gli altri premiati, Shira Geffen per l’editing e la sceneggiatura di “Self Made”, storia di un surreale scambio di ruoli tra due donne, una israeliana, l’altra palestinese. Riconoscimenti anche al documentario di Vanessa Lapa “The decent one”, minuziosa ricostruzione della mente e dei piani di Himmler; a “24 Days” di Alexander Arcady, dedicato al rapimento di Ilan Halimi e “Radical Evil” di Stefan Ruzowitzky sui meccanismi dello sterminio nazista. La giuria internazionale della critica ha infine premiato “Gueros” di Alonso Ruizpalacios e “Red Leaves” di Bazi Gete (vincitore anche del riconoscimento per l’opera prima) e, tra i film israeliani, “The Kindergarten Teacher” di Nadav Lapid.
A chiusura di festival rimangono alcuni interrogativi: sul ruolo futuro della Cinematheque (che vanta uno sbilancio economico più che notevole) o sull’opportunità di includere nel futturo opere di filmakers palestinesi (il direttore Regev dice di aver lavorato in questo senso, finora senza successo, ma chissà quali saranno le traiettorie di lavoro per il futuro). Vi è però una certezza: il cinema israeliano, fiorito così di recente, gode di ottima salute ed è destinato a regalarci ancora frutti notevoli.
Daniela Gross
(24 luglio 2014)