Da un post all’altro, come in guerra

Senza arrivare ai casi limite come quello della giornalista della CNN, Diana Magnay, richiamata e allontanata dalla Striscia di Gaza per un tweet inopportuno, o senza interrogarsi sull’operato di Anne Barnard, reporter del New York Times, corrispondente di guerra per oltre un decennio, che ha recentemente usato il suo account twitter in una maniera che obbliga quantomeno a interrogarsi, è certamente vero che in tempi di guerra la capacità di comprendere come a mezzi diversi debbano corrispondere una attenzione e un linguaggio diversi è fondamentale.
Benché sia facebook che twitter implichino l’utilizzo di una tastiera, e quindi una benché minimale forma di scrittura, il linguaggio utilizzato è spesso quello dell’oralità, appassionato, impulsivo, a volte eccessivo, a comporre dei dialoghi vibranti, a volte violenti. Eppure in questi giorni di guerra è più evidente che mai come sarebbe necessaria e doverosa una riflessione sull’utilizzo di facebook, e forse ancora più sull’uso e sull’effetto che può avere un tweet, che può essere ritwittato virtualmente all’infinito. Le due parti ripropongono narrazioni contrapposte, che arrivano però in genere a una cerchia di amici, un circolo pressoché omogeneo di persone che sono parte di un pubblico già “convinto” a priori.
Eppure non sono solo i singoli cittadini, magari seduti dietro uno schermo a migliaia di km di distanza dagli eventi, a creare una sorta di fronte virtuale (ma non per questo meno virulento o aggressivo): Hamas – lo spiega un report del Middle East Media Research Institute – ha diffuso delle precise linee guida per l’uso dei social network in cui è scritto chiaramente che “Chiunque sia ucciso o martirizzato deve essere chiamato ‘un civile di Gaza o di Palestina’, prima di parlare del suo ruolo nella jihad, o il suo grado militare. Non dimenticate di aggiungere sempre ‘civile innocente’ o ‘cittadino innocente’ nella descrizione di quelli uccisi negli attacchi israeliani su Gaza”. E, ancora: “Evitare di entrare in una discussione politica con un occidentale volta a convincerlo che l’Olocausto è una menzogna; invece, mettere sullo stesso piano con i crimini di Israele contro i civili palestinesi”. Secondo il New York Times esiste addirittura una sorta di tutorial su youtube, ad opera dello stesso ministero palestinese. E da parte israeliana esiste una narrazione parallela, sebbene molto più strutturata e istituzionale, fatta di immagini e di video che fanno il punto della situazione sul terreno e raccontano storie di coraggio, di forza, di eroismo. I racconti e le narrazioni dei conflitti cercano da sempre di creare consenso e di indirizzare l’opinione, tentando contemporanemente di mostrare i muscoli, per arrivare a una sorta di dominazione psicologica dell’altra parte.
Una studiosa dell’università di Gerusalemme, Dalia Gavriely-Nuri, esperta degli aspetti culturali del linguaggio in tempi di guerra, ha spiegato come in ebraico l’operazione Protective Hedge possa – forzando un poco la traduzione – diventare “scogliera imponente”. L’ipotesi è addirittura che il rifarsi alle forse naturali possa servire ad alleggerire la responsabilità per la campagna militare perché, ha spiegato “Nessuno è responsabile se si trova sotto uno tsunami”. E al New York Times Etgar Keret, lo scrittore, regista e attore che vive a Tel Aviv, ha confessato di essere molto turbato dal linguaggio usato dai media israeliani per raccontare il conflitto, e in particolare dall’uso del termine “non coinvolti” a sostituzione della parola “civili”.
La discussione sull’uso di facebook è molto presente in questi giorni di tensione: il chiacchiericcio globale, che può essere accettabile in tempi di pace – per quanto sull’uso dei social network andrebbero forse interiorizzate le discussioni e anche le opinioni di chi ha analizzato seriamente la questione – va decisamente ripensato in tempi difficili.
Bisognerebbe forse porsi alcune domande prima di scrivere un post. Jay Michaelson, sul Forward, ne suggerisce alcune: Che effetto otterrò con il mio post? Sono arrabbiato? Il mio post significa “gli altri sono il male”? Sto solo riproponendo cose scritte da altri?
Diventa utile allora riflettere su alcune delle risposte che lo stesso autore propone: “Se quello che scrivo farà arrabbiare chi lo legge, è davvero la cosa migliore da fare? Se sono arrabbiato quando scrivo allora probabilmente il risultato sarà una spirale di rabbia crescente. E passerò per una persona che non è in grado di controllarsi. Una volta questo era male. Se mi limito a scrivere degli altri come del ‘Male’ probabilmente non mi è chiara la complessità della situazione. Se voglio ottenere risultati positivi e avere un effetto su chi mi legge, posso fare di meglio.”

Ada Treves twitter @atrevesmoked

(28 luglio 2014)