Deserto

Francesco Moisés BassanoCosa potrebbe rappresentare il deserto se non la metafora dell’esistenza terrena?
Territorio sterminato e arido, privo in gran parte di protezioni, “popolato” da jinnī e da visioni, talvolta celestiali. Nelle culture che qui sono fiorite come lo tzabar, rappresenta ab ovo il luogo dell’espiazione, del silenzio, dell’eremitaggio e della ricerca interiore specie nel Cristianesimo, o la trasposizione terrena dell’inferno nell’Islam, è perdizione, ma è anche soprattutto scelta e quindi libertà. Sino alla letteratura fantascientifica dove il deserto è il simbolo di un mondo divenuto disumanizzato e inospitale, che ha perso il ricordo di una terra primordiale coltivata e ricca di vegetazione – come nel Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni per esempio, in cui ad una Romagna desolata e inquinata si contrappone la favola edenica dell’incontaminata Isola di Budelli con le sue acque cristalline.
Il popolo ebraico nasce nel deserto, qui riceve la parola di D-o, il proprio ethos, “il tempio da portare sempre con sé”, ricevuto in uno spazio vuoto che si può riempire ad un tratto di immensa luce, ma può anche tornare improvvisamente buio. Il suo intero cammino si fonderà da allora continuamente sulla dialettica deserto/terra promessa, in questa fervente attesa della consegna di un luogo, al contrario, florido “dove scorre latte e miele”. “Noi siamo la generazione che vagherà e morirà nel deserto” aspettando di entrare nella Terra di Canaan, scriveva Arnold Zweig nel 1913. “La creazione dello Stato di Israele, non è la fine della Galut […] è una parte di essa” scrive poi Leo Strauss nella sua critica a Spinoza. E ancora oggi, stiamo ancora vagando nel deserto, con tutti i pericoli che esso comporta, e con il dovere di non dimenticare mai il lungo viaggio percorso.

Francesco Moises Bassano

(15 agosto 2014)