Scrivere per vincere il complesso di inferiorità

baseball“Speriamo che da grande sia forte come un goy” diceva qualcuno. C’è da dire che l’ebraismo tutto occhialetti ed esegesi ha sempre avuto un rapporto quanto meno originale con lo sport. A partire, purtroppo, dal mondo degli stereotipi. E se da una parte si può additare l’atletica attitudine degli antichi greci come causa numero uno dell’assimilazione (gli ebrei venivano derisi per la milah e smettevano di circoncidersi pur di assomigliare agli altri), dall’altra, la letteratura ebraica rappresenta lo sport come valvola necessaria per i processi identificazione ed emulazione, come elemento di crisi e di interrogazione o anche solo come cornice ideale dentro la quale calare i propri protagonisti. Quante volte ci siamo domandati perché diavolo Giorgio Bassani indugiasse così tanto nelle partite di tennis che, dopo aver raccolto un nutrito gruppo di persone cacciate dal club perché ebrei, i Finzi-Contini organizzavano nel loro buen retiro vestiti di bianco? Alberto malaticcio, Micol saltellante e Giorgio innamorato pazzo. Anche se poi del tennis in sé poco importava, bisognava semplicemente vivere in giardino, scolarsi Himbeerwasser, la versione estiva dello Skiwasser e coprirsi gli occhi. Il tennis diventava la dimensione fatata di un giardino incantato dentro il quale non avevano accesso le brutture del mondo, ma si continuava imperterriti a scrivere la tesi di laurea su Emily Dickinson e a collezionare lattimi di vetro in camera da letto.
Altri esempi? Facciamo un salto oltre la rete: nell’intellighenzia ebraica non può non avere spazio il tifo, la vibrante sensazione di scendere in campo comodamente seduti sul divano. Ne sa qualcosa lo scrittore Alessandro Piperno che, esibendo una punta di odio di sé jewish style, tifa sfegatato la Lazio, squadra di calcio universalmente nota per qualche colpo di testa di giocatori e alcuni tifosi platealmente antisemiti. Il tifo non può mancare nemmeno nella letteratura israeliana diventando la chiave di lettura necessaria per la Simmetria dei desideri, best seller di Eshkol Nevo, il cui incipit vede quattro amici riunirsi ogni quattro anni per strafogarsi di burekas e guardare i mondiali di calcio senza poter mai supportare la squadra del proprio paese. “Certo che quest’anno i mondiali di calcio sono stati piuttosto dolorosi per voi italiani – ha detto Nevo in trasferta a Milano qualche settimana fa – pensate a noi che non ci siamo nemmeno arrivati!”. I mondiali di calcio sono l’occasione per gli amici di fare il bilancio della vita, di toccare corde di se stessi che non credevano di avere. Guardando alla televisione una squadra mai veramente propria, facendo un tifo posticcio, interrogandosi sulla grande assenza, i protagonisti del libro prendono paradossalmente forma.
Se sbarchiamo oltreoceano, lo sport diventa la costante sempre presente nei libri di letteratura ebraica. Caso n.1: Danny l’eletto, il capolavoro di Chaim Potok. “Reuven, man mano che passeranno gli anni, scoprirai che le vicende più importanti della tua vita saranno spesso la conseguenza di cose stupide, come le chiami tu. Mi sembra il termine più adatto. Così va il mondo”. La svolta nella vita di Reuven avviene nella maniera più inaspettata: durante una partita di softball. Racconta che “alcuni insegnanti di inglese delle scuole ebraiche si erano piccati di mostrare ai gentili che gli alunni delle loro yeshivot, malgrado le lunghe ore di studio, avevano la stessa efficienza fisica degli alunni di una qualsiasi altra scuola americana. E si misero a dimostrarlo organizzando squadre sportive nelle scuole ebraiche del nostro quartiere”. Proprio il softball fa ingranare il romanzo: Danny, il predestinato, prescelto per essere il nuovo capo spirituale della comunità, si scontra con il giovane e saggio Reuven. Quella che doveva essere una semplice partita tra ragazzotti adolescenti, si trasforma in uno scontro spietato; tanto che Danny ferisce per sbaglio l’occhio dell’avversario e dovrà andarlo a trovare all’ospedale. Lo sport diventa per Potok il corridoio universale dentro il quale far passare il lettore per poi condurlo in un mondo lontano e per molti a tratti incomprensibile. Lo sport diventa nella letteratura ebraica il linguaggio universale e allo stesso tempo la convenzione vicina e lontana.
Di partite se ne intende poi uno dei personaggi meglio costruiti e più amati di sempre: il burbero Barney Panofsky, l’alter ego creato dal suo padrino Mordechai Richler nella Versione di Barney. Paese che calchi, sport che trovi: Barney, cinico produttore televisivo ha un’unica grande passione (tolta la terza moglie Miriam, il sigaro e il Macallan); l’hockey. Ebreo di Montreal, non può fare a meno di sbronzarsi, deprimersi, odiare più o meno chiunque lo circondi e guardare senza tregua i match, tanto da essere definito un hockey obsessed. Per intenderci, i forum di hockey su internet (ebbene sì, esistono davvero) non possono far a meno di dedicare un capitolo a Barney, definendolo il miglior romanzo con la suddetta disciplina sullo sfondo. Mordechai Richler si abbandona con gioia alla cronaca sportiva, tanto da scrivere il più indigesto Il mio biliardo, che ha lasciato con qualche perplessità anche i suoi lettori più accaniti.
Arriviamo quindi all’esempio più lampante e didascalico del nostro atletico viaggio: il maestro Philip Roth, la cui affiliazione ai temi sportivi ha visto persino venire alla luce uno studio accademico; Sport and Masculinity in Philip Roth’s American Trilogy: American Pastoral, I Married a Communist, The Human Stain, and Exit Ghost di Carina Staudte. Un altro saggio, firmato da Derek Parker Royal e intitolato Fouling out American Pastoral, si concentra interamente sul ruolo del baseball (vd il termine tecnico foul out) nei suoi romanzi. Il gioco diventa una metafora che permette ai protagonisti di rimanere per sempre giovani, di vivere in una bolla. Murray Ross parla addirittura del baseball come rappresentazione di un’età dell’oro, uno spazio edenico che non potrà più tornare. Da Portnoy che confessa al dr. Spielvogel, tra una lamentazione e un’altra, che il campo da baseball è il luogo nel quale rifugiarsi dalla ossessionante vita di casa (“tutto il tempo sotto il sole… tutto il tempo in attesa di una palla” racconta ispirato) a Grande Romanzo Americano, il libro che vede lo sport d’America addirittura come protagonista indiscusso. Al centro della scena di Grande Romanzo Americano una squadra senza dimora che vaga da un campo all’altro. Un richiamo di certo all’errante popolo ebraico, puntualizza Parker Royal. Roth, nel saggio My baseball years, rivela il ruolo chiave che ha ricoperto nella sua esistenza: grazie alla sua mitologia, all’insieme di valori, al ruolo nella cultura americana, il baseball costituisce la letteratura dell’adolescenza dello scrittore. Diventa quindi lo strumento necessario per mettere in crisi il mito americano.
La passione di Philip Roth per lo sport trova infine il suo culmine in Pastorale Americana con il personaggio de Lo Svedese, uno straordinario atleta ebreo. “Lo Svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico nel nostro quartiere di Newark”. Alto e biondo, Lo Svedese, all’anagrafe Seymour Levov, è l’ideale irraggiungibile: “Brillava come estremo nel football, pivot nel basket e prima base nel baseball”. E continua: “Grazie allo Svedese, il quartiere cominciò a fantasticare su se stesso e sul resto del mondo, così come fantastica il tifoso di ogni paese: quasi come i gentili, le nostre famiglie poterono dimenticare come andavano realmente le cose e fare di una prestazione atletica il depositario di tutte le speranze. In primo luogo, poterono dimenticare la guerra”. Il biondo Levov è la rivalsa, l’affermazione, la vittoria a piene mani. Il suo personaggio non avrebbe ovviamente alcuna rilevanza se esulato dal contesto: lo Svedese è tale perché nasce e cresce in un quartiere ebraico di Newark. Si può concludere quindi che la carrellata di citazioni sportive, inserite come piccoli e gustosi bon bon nei libri di letteratura ebraica, siano quasi sempre la chiave di volta dei singoli romanzi. Ogni schiacciata, ogni battuta, ogni parata; tutto cela una piccola via di fuga. Dietro il berretto c’è di più.

Rachel Silvera, Pagine Ebraiche agosto 2014

(17 agosto 2014)