Periscopio – ‎Ascoltare Levinas

lucreziIn questi giorni oscuri, nei quali nel mondo dilaga la violenza più bruta, tra il cinismo dei tanti che sanno solidarizzare soltanto con gli aggressori, coprendo gli aggrediti di odio e disprezzo, aggiungendo incessantemente violenza a violenza, ingiustizia a ingiustizia, in un’apparente spirale senza fine, suscita turbamento e tristezza rileggere una mirabile pagina scritta, più di trent’anni fa, dal grande Emmanuel Levinas (Honneur sans drapeau, Senza nome):
“Dalla fine della guerra in poi, il sangue non ha cessato di scorrere. Razzismo, imperialismo, sfruttamento, persistono inesorabili. Le nazioni e gli uomini sono esposti all’odio, al disprezzo, temono miseria e distruzione.
Ma le vittime sanno almeno da che parte volgere gli occhi che si spengono. I loro spazi desolati appartengono a un mondo. Di nuovo esiste un’opinione pubblica indiscussa, istituzioni indiscutibili ed una Giustizia. Nei discorsi, negli scritti e nelle scuole il bene è arrivato a coincidere con il Bene di tutte le latitudini ed il male è divenuto il Male di tutti i tempi. La violenza non ha più il coraggio di chiamarsi per nome. Ciò che fu unico tra il 1940 e il 1945 fu l’abbandono. Sempre si muore soli e dovunque le sciagure sono senza speranza. E tra coloro che sono soli e senza speranza, le vittime dell’ingiustizia sono dovunque e sempre le più desolate e le più sole. Ma chi potrà dire la solitudine delle vittime che morivano in un mondo… in cui la menzogna non era neppure necessaria al Male ormai certo della sua superiorità? Chi potrà dire la solitudine di coloro che pensavano di morire contemporaneamente alla Giustizia…?”.
Turbamento e tristezza, perché quel mondo indicato da Levinas – nel quale, dopo l’orrore di ciò che era accaduto, l’idea di Giustizia, quantunque negata, offesa, minacciata nelle azioni, era comunque tornata a imporsi agli occhi di tutto il mondo, come monito per le coscienze di tutti, almeno, appunto, come idea – pare oggi vacillare, ogni giorno di più. Cosa c’è, oggi, in tanti discorsi, in tanti scritti, in tante scuole? Il bene coincide ancora con “il Bene di tutte le latitudini”? Il male è tornato a essere “il Male di tutti i tempi”? E la violenza non ha ritrovato forse il coraggio di “chiamarsi per nome”, di mostrare il proprio volto? Quanti, al giorno d’oggi, non hanno più alcun pudore a dire di amare la morte, il sangue, la distruzione, a tagliare gole in mondovisione. L’odio puro, il terrore sistematico sono di nuovo, per tanti loro fomentatori, un programma, un progetto, un obiettivo.
Da che parte le vittime devono oggi volgere i loro occhi? A quale mondo appartengono i loro “spazi desolati”? 
Non so se chi oggi muore muoia, di nuovo, insieme alla Giustizia. E sono ben consapevole di quanto sia inammissibile e pericoloso estendere l’esperienza della Shoah al di là del suo spazio e del suo tempo. Ma ho anche sempre pensato che, di fronte alla Shoah, ci siano due fondamentali errori di interpretazione, entrambi, in buona o cattiva fede, molto ricorrenti. Il primo è la sua banalizzazione, la negazione della sua specificità ed unicità, attraverso i disinvolti accostamenti alle innumerevoli forme di violenza e prevaricazione, grandi o piccole, vere o inventate, che hanno continuato a verificarsi nel mondo, quel mondo nel quale “il sangue non ha cessato di scorrere”. Ma c’è anche un secondo errore, non meno grave, che è quello di considerare l’unicità della Shoah come una sua ‘metastoricità’, la realizzazione misteriosa e metafisica di un imperscrutabile ‘unicum’ senza precedenti né conseguenze, senza un ‘prima’ né un ‘dopo’. Quel terribile abbandono è avvenuto nella storia, nella storia degli uomini, ed è parte integrante di una malattia dell’animo umano molto antica, da cui l’umanità non è certo guarita. 
E il capezzale del malato è oggi affollato da dottori e infermieri in camice bianco, in fila per iniettare le loro siringhe piene di veleno.   

Francesco Lucrezi, storico

(27 agosto 2014)