Qui Milano – Jewish and the City
Gottschall, “Così ho scoperto le mie radici”
Il tema decisamente narrativo scelto dal comitato organizzatore della seconda edizione di Jewish and the City, il festival internazionale di cultura ebraica presentato questa mattina a Milano, non poteva avere una introduzione più adatta. Parlare di “Pesach, il lungo cammino verso la libertà” significa dare centralità a quello che è il racconto per antonomasia, e Jonathan Gottschall, psicologo evoluzionista che si occupa da tempo dell’attitudine umana a narrare storie e della funzione della narrazione a livello sociale ha riservato ai presenti una sorpresa. Pur avendo anticipato alla redazione del portale dell’ebraismo italiano la recente scoperta delle sue radici ebraiche, no aveva ancora raccontato la storia di come questo sia avvenuto. Una storia nella storia: un esperto di narrazione che improvvisamente si trova a confrontarsi con un pezzo della propria storia familiare, nascosta fino a poche settimane fa. Dopo aver spiegato come l’arte di narrare permetta di trasmettere culturalmente informazioni essenziali per la sopravvivenza e come si tratti di un ottimo sistema di codifica delle norme sociali e delle regole morali, ha raccontato come, guardando con suo padre delle vecchie fotografie di famiglia, la sua attenzione sia stata attirata da un viso molto particolare, un personaggio che non conosceva. Si trattava del suo bisnonno, ebreo, di cui in famiglia non si era mai parlato perché “si trattava di una informazione da tenere nascosta”. Aveva un viso molto particolare, che nel sud degli Stati Uniti deve avergli creato moltissime difficoltà, non permettendogli di integrarsi completamente come avrebbe voluto. Una storia che si è ripetuta per il nonno di Gottschall, Lester junior, che addirittura veniva chiamato “Lester the Jew” e che dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Venti, attraverso Milwaukee, Oklahoma e Texas ha reso la vita della sua famiglia talmente difficile da portare a quella rimozione che ha fatto dire al padre di Gottschall, facendo riferimento alle sue radici ebraiche: “You do not want this to go around”, ossia “è meglio che non si sappia in giro”. “Essere così riconoscibilmente ebreo è sicuramente stato parte dei tormenti del mio bisnonno, prima, e di mio nonno in seguito, non permettendo loro di arrivare al compimento di un percorso di integrazione, che invece rappresento bene io, con la mia faccia”.
Sud degli Stati Uniti, inizio del ventesimo secolo, un luogo e un periodo in cui per Lester senior e Lester junior, detto “the Jew” la vita deve essere stata davvero difficile, se tutta una famiglia ha considerato per generazione che di questa storia non si dovesse parlare. Il “successo” allora arriva solo con il volto neutro, qualsiasi, riconducibile al melting pot tipicamente americano in cui Gottschall si riconosce, con un viso “plainly white”, banalmente bianco.
Il fratello di Jonathan Gottschall, che lo ha accompagnato nel suo viaggio italiano, ha aggiunto che “È una scoperta talmente recente che non abbiamo ancora avuto il tempo di capire davvero se porterà a qualche differenza nel nostro modo di essere”. E l’autore de “L’istinto di narrare”, perfetta impersonificazione di quello “storytelling animal” che è il titolo inglese del suo libro, ha cercato di nascondere una profonda commozione e forse qualche difficoltà a razionalizzare una emozione così recente, sostenendo solo che per ora si tratta sicuramente di qualcosa che lo avvicina all’ebraismo facendogli provare una maggiore empatia ma che si tratta di “una storia che è ancora tutta da scoprire”.
Ada Treves twitter @atrevesmoked
(8 settembre 2014)