L’Isis e la guerra / 4

vercelli13. Per valutare le dimensioni, e la rilevanza, di un conflitto è fin troppo ovvio prendere in considerazioni i dati numerici. Nel caso dell’Isis-Daesh-Is, tuttavia, certi numeri non ci raccontano più di tanto. Ossia, non ci rendono maggiormente tangibile ed intelligibile lo stato effettivo delle cose. Se l’importanza di una forza combattente è data dalla composizione quantitativa delle sue unità, allora il cosiddetto «Esercito islamico» parrebbe essere poca cosa. Le stime più accreditate, quelle offerte dall’intelligence americana indicavano, al giugno del 2014, in 12-15mila i miliziani in armi, e in altri 6 o 7mila quelli reclutati nelle settimane immediatamente successive. Cospicua, nell’ordine del 15%, la presenza di combattenti venuti dall’estero, ed in particolare dai paesi occidentali. Un buon numero di essi d’origine musulmana ma un’altra parte assoldatasi per motivi che di religioso hanno poco o nulla. Di fatto mercenari, dal momento che se è vero che l’Isis si presenta con il volto truculento del peggiore radicalismo islamista, concretamente opera anche come una compagnia di ventura. Sul piano operativo, infatti, parrebbe assomigliare di più ad un insieme raccogliticcio di unità combattenti, generatosi a partire dallo scontro contro il regime di Assad in Siria, che non ad una schiera compatta di militi. Benché ambisca a considerarsi del pari ad un vero e proprio esercito, e così venga impropriamente definito dall’informazione internazionale, fatto che gli rende una cortesia inimmaginabile, concretamente offre ben poco nei termini di tale caratteristiche. Questo, tuttavia, nulla toglie alle sue capacità offensive, che dipendono più dalle debolezze dei suoi nemici che non dalle virtù delle sue file. La specialità prevalente, al suo interno, è quella assimilabile alla fanteria leggera, dove predomina l’armamento individuale offensivo (dai kalashnikov ad altre armi trasportabili) insieme a dotazioni trasportabili come i mortai leggeri, i pezzi anticarro di piccole e medie dimensioni, i cannoni senza rinculo. Il mezzo di trasporto preferito, una sorta di must nelle guerriglie che operano in territori di ampie dimensioni, privi di impedimenti naturali nel libero transito dei veicoli commerciali, così come nelle aree urbane, è il pick-up, di derivazione americana. Ottimo per la maneggevolezza, veloce e duttile, è tuttavia completamente inefficace nel combattimento, non offrendo alcuna protezione ed esponendo quanti vi viaggiano ai colpi avversari. L’Isis è strutturato in unità di piccole dimensioni, perlopiù reparti che contano, a seconda dei casi, dai venti ai cento uomini. Non si tratta solo di una questione di mobilità, che pure è fondamentale nel conflitto in corso, dove gli spostamenti sono pressoché continui, ma anche di gestibilità organizzativa, logistica nonché di direzione dei reparti. I ruoli di comando, che legittimano a imporre determinate condotte e indicano, di volta in volta, gli obiettivi da raggiungere, non possono che essere ricoperti da uomini a diretto contatto con le unità combattenti, quindi essi stessi combattenti. Il carisma del capo, in tale caso, implica la milizia diretta, tra le pallottole. Un dato, questo, che offre una certa autonomia alle singole unità, quando si tratta di fare delle cose altrui un bottino proprio. Laddove però le necessità lo dovessero richiedere, subentra allora il coordinamento tra le diverse entità combattenti, per il conseguimento della meta comune. In quest’ultimo caso il collante ideologico è offerto dall’ideologia della rivalsa in salsa islamista. Altrimenti, il combattimento per il combattimento è già di per sé una buona ragione per agire. L’Isis può inoltre contare su mezzi corazzati, blindati e artiglieria sottratti all’esercito regolare iracheno e a quello siriano. Soprattutto al primo, che ha ceduto importanti depositi, ad esempio nell’area di Mosul, e un arsenale nonché equipaggiamenti equivalenti alle dotazione di quattro divisioni regolari di fanteria (in grado di soddisfare dai 50 agli 80mila uomini, per intenderci). Si parla di una cinquantina di carri armati tra gli M1A1 statunitensi e i T72 russi, oltre a qualche centinaio di missili Stinger e SA-24, terra-aria. Inutile dire che la gran parte di questo materiale era comunque di provenienza americana, contemplando mezzi da trasporto ma anche importanti sistemi d’arma. Il punto, tuttavia, è un altro. Ovvero, non basta avere mezzi, strumenti ed armi. Bisogna saperli fare funzionare, ottimizzarne l’uso e dotarsi di parti di ricambio, tanto più indispensabili in un guerra di movimento. Tutte cose che l’Isis è improbabile che sappia (e possa) fare. Più plausibile che mentre con le componenti meccaniche proceda all’uso dissipativo – basato sull’incapacità di disporne secondo le procedure standard, adattandole quindi al caso e all’inventiva del momento – per quelle elettroniche vada verso un consumo accelerato, al quale seguirà l’inutilizzabilità di quel che resta in mancanza di elementi di ricambio, di preparazione all’uso, di aggiornamento degli operatori. La guerra, infatti, non si misura solo sulla dimensione degli arsenali ma sulla capacità di farli fruttare, ossia creando economie di scala nella potenza offensiva. Una qualità che appartiene in genere solo agli eserciti migliori. E i miliziani sunniti di al-Baghdadi non sembrano disporre di queste caratteristiche. L’elemento dissonante, in tale quadro d’insieme, altrimenti prevedibile, è dato dall’opinabile condotta intrattenuta fino ad oggi dall’esercito iracheno. La vera svolta, nelle ostilità, si è infatti misurata quando l’Isis ha avuto il coraggio e la determinazione di procedere allo scontro in campo aperto, quello che un tempo sarebbe stata la classica “battaglia campale”. Alle forze guerrigliere è di per sé interdetta. La teorizzazione, al riguardo, risale già alle guerre napoleoniche ed ha trovato nel Novecento, attraverso la figura del partigiano prima e del guerrigliero vietnamita poi, due esemplificazioni calzanti. Lo stesso Olp, ai tempi di Yasser Arafat, negli anni del suo fulgore militante, si rifaceva a questa dottrina. Ora, l’importanza e le quotazioni dell’Isis si sono enormemente accresciute quanto ha invece deliberatamente ingaggiato il confronto con le truppe di al-Maliki al di fuori degli ambienti operativi a sé più favorevoli. Se nel caso della contrapposizione con i Peshmerga curdi, che pure possono contare su una lunghissima tradizione militare, l’equilibrio tra i contendenti era garantito dalla similarità delle forze e degli armamenti in campo, non la stessa cosa si sarebbe detta nel momento in cui Baghdad avesse obbligato i miliziani neri al terreno aperto. Quanto poi tutto ciò è capitato per davvero, le truppe lealiste sono state sconfitte. Quale sia il differenziale che ha fatto, alle resa dei conti, la vera differenza, è da imputare, in tutta probabilità, alla motivazione che i primi avevano e che invece mancava del tutto alle seconde. La coesione, unita alla determinazione, si è abbattuta come un colpo di maglio contro le anemiche forze armate irachene. Dotate di tutto fuorché della volontà di combattere. Per meglio dire, divise al loro intero dalle antiche faglie dettate dalle appartenenze di gruppo, dalla fazionalizzazione, dagli effetti di lungo periodo della dismissione della struttura organizzativa costruita dal Ba’ath di Saddam Hussein (un po’ come le purghe sovietiche della fine degli anni trenta contro l’Armata rossa, che costarono non poco in termini di capacità direzionale quando le armate hitleriane, il 22 giugno 1941, invasero il Paese), dalla mortificazione dei sunniti a favore dei sciiti e così via. 

14.  Una questione che è stata posta, e viene ripetuta ossessivamente, è quella che riguarda i finanziamenti dell’Isis. L’unica certezza che si ha, al momento, è che possa contare sui 430 milioni di dollari sottratti alla sede di Mosul della Banca centrale irachena. Somma cospicua ma non sufficiente in sé per tenere in piedi un apparato bellico costosissimo, partendo dalla premessa che tutti i miliziani sono a libro paga, per la cifra di seicento dollari mensili a testa. Il “califfato”, al riguardo, ha quindi cercato di organizzarsi, dotandosi di una struttura amministrativa e politica. Che è guidata molto spesso da ex funzionari di Saddam Hussein, alla ricerca di una rivincita dopo la sconfitta del 2003 e la conseguente caduta del regime. Non sono islamisti ma laici, di formazione nazionalista e, in parte socialista, che hanno optato per lo jihadismo non come ideologia bensì in quanto opportunità per se stessi, fonte di status e ruolo sociale. Al-Baghdadi si è scelto i suoi collaboratori anche e soprattutto tra gli ex compagni di prigionia a Camp Bucca, il più grande centro di detenzione statunitense in territorio iracheno. Di fatto, ancora una volta l’imprigionamento non è servito se non a forgiare e a rafforzare una generazione di militanti. La compagine direzionale del “califfato” rende però omaggio al principio dell’internazionalismo, altro pilastro su cui fonda le sue ragioni. Non solo iracheni o siriani, quindi, ma anche “arabi”, ceceni e alcuni occidentali. Il territorio sotto il controllo dei miliziani neri è stato quindi diviso in dodici province, dotate di un discreto grado di autonomia (affinché ognuna d’esse risponda da sé ai bisogni della popolazione, senza chiamare in causa, qualora vi siano eventuali inadempienze, gli uomini dell’inner circle di al-Baghdadi). Ognuna di esse è governata da un Vali (letteralmente, in turco, «governatore», carica amministrativa che etimologiamente deriva dall’arabo wilāya e dal persiano velayet), un plenipotenziario del “califfo Ibrahim”, che deve garantire l’ordine interno e la riscossione dei tributi. Un’altra fonte economica è la produzione, in proprio, di circa 40mila barili al giorno di greggio, venduti rigorosamente sotto costo, al mercato nero, a circa 40 dollari l’uno. I proventi non supererebbero quindi il milione e mezzo di dollari al giorno. Anche questa è una cifra rilevante ma, in sé, non sufficiente a coprire il fabbisogno di una forza armata in continuo movimento. Il greggio viene raffinato in loco e poi trasferito in Giordania, Turchia e Iran. Che provvedono a piazzarlo sul mercato. Di certo, laddove ha istituito la sua giurisdizione, l’Isis ha imposto, tra le altre cose, veri e propri sistemi di estorsione e racket per ottenere benefici finanziari a breve, nell’ordine di qualche milione di dollari al mese. Ma sa bene, non di meno, che nessun consenso può derivargli dal rapinare sistematicamente le economie locali. Ragion per cui deve contemperare le spinte all’approvvigionamento immediato con la necessità di lasciare agli operatori di mercato privato lo spazio per vivere e lavorare. Peraltro, i pizzi richiesti dagli uomini di al-Baghdadi risultano essere meno onerosi di quelli imposti, a suo tempo, dagli scherani di Assad. A Raqqah, per fare un esempio, i commercianti pagano circa dieci dollari al mese per avere una sorta di “set” di servizi, tra i quali sono compresi l’elettricità, l’acqua potabile, le fognature e la “sicurezza”. Al loro arrivo – contrariamente a quanto facevano i talebani in Afghanistan, questi ultimi più prossimi alla distopia di un ritorno al medioevo rurale, del pari ai Khmer rossi negli anni Settanta – i miliziani dell’Isis si sono invece guardati bene dal distruggere gli oggetti della modernità che trovavano a disposizione. Così, allo stato attuale delle cose, le grandi compagnie telefoniche e di telecomunicazioni, che devono operare nelle zone occupate, continuano a farlo pagando consistenti canoni d’affitto alla centrale jihadista. I cellulari, infatti, non sono per nulla scomparsi. Gli sparuti cristiani rimasti in quelle terre devono invece corrispondere ai nuovi signori l’antica jizya, parola araba con la quale si indica un’imposta di capitazione, quindi pro capite, detta anche di «compensazione», richiesta ai sudditi non musulmani risiedenti nei territori appartenenti all’Umma islamica, come nel caso dell’Impero ottomano fino alla fine dell’Ottocento. Qui gli importi sono molto più sostenuti, arrivando anche ai duecentocinquanta dollari al mese. Anche da quest’ordine di considerazioni, e dalle stime provenienti da alcune analisi, secondo cui lo Stato islamico potrebbe contare su un budget elevatissimo, dell’ordine di almeno due miliardi, si è rilanciata la polemica sui finanziamenti esterni, ovvero sui suoi soci più o meno occulti. Non vi è in realtà nessuna certezza sulla reale condizione patrimoniale del gruppo. Così come è tutta da comprovare la tesi secondo la quale a sostenerlo sarebbe il Qatar. I precedenti, secondo questo filone, risiederebbero negli aiuti che Doha ha fornito alla Fratellanza musulmana in Egitto e in altri Paesi, in funzione anti-wahhabita, ossia contro l’Arabia saudita, e nel sostegno ad una parte dei rivoltosi che dal 2011 combattono contro Assad in Siria. Non ci sono tuttavia riscontri all’ipotesi di un diretto coinvolgimento del Qatar. Per meglio intendersi sul problema capitale delle risorse, sulla loro origine, vale forse la pena di ribaltare l’approccio abituale, domandandosi non tanto quali siano gli amici dell’Isis ma quanti e quali siano i suoi nemici e come e quanto remino gli contro. Di certo l’Arabia Saudita (da sempre generoso sponsor di movimenti, gruppi e gruppuscoli radicali e terroristici, nel nome di una politica del doppio binario, che dialoga con l’Occidente mentre tesse la trama con il fondamentalismo militante), oggi non teme solo l’arco delle forze sciite, quelle che si riconoscono in Teheran, ma anche una nuova minaccia di marca sunnita, che le deriva da due fianchi adesso scoperti, la penisola del Sinai e l’ampio settore siro-iracheno. Nel secondo caso, la petrolmonarchia ha in angoscia uno scenario a venire dove i qaedisti, i salafiti e gli jihadisti possono dare fiato a progetti autonomi che, alla resa dei conti, giocherebbero in chiave destabilizzante contro Riyad e le altre dinastie del Golfo. Che questi considerino quelle come apostate e infedeli, soprattutto dopo la Prima guerra del Golfo, nel 1991, non è una novità. Ma tale interdetto assume caratteri peculiari se si considera che la dirompenza dell’Isis contribuisce ad accelerare l’evoluzione dello scenario regionale e il mutamento dei suoi protagonisti.

15.   Sembra quasi un contrappasso per l’Arabia Saudita, un paese che ha fatto del richiamo all’integralismo la sua matrice di legittimazione più potente. L’ideologia wahhabita è una corrente ultraradicale del sunnismo, fondata nel XVIII secolo da Muhammahd ibn Abd al-Wahhab, con l’intento di rifarsi ad una (presunta) radice originaria, inalterata della fede islamica, altrimenti compromessa dall’evoluzione dei tempi. Da ciò, tra le altre cose, l’introduzione di un’ortoprassi, giocata prevalentemente sui gesti quotidiani, come il divieto per i maschi di tagliarsi la barba, la lotta contro il culto dei santi, l’uso del tabacco, l’ascolto della musica. Si tratta di una dogmatica quotidiana che ambisce ad egemonizzare tutti gli aspetti possibili della vita privata delle persone, condizionandone l’esistenza e i comportamenti. Quella che in origine poteva costituire una variante intollerante ma fine a sé, è divenuta, nella Penisola arabica, un fattore progressivo di legittimazione delle élite dirigenti, che ne hanno incorporato alcuni aspetti più per calcolo di opportunità che per autentico convincimento. L’osservanza dogmatica del Corano si è così coniuga alla critica della corruzione dilagante e, in tempi più recenti, all’opposizione verso le politiche filo-occidentali. La dinastia saudita per giustificare le seconde si è fatta schermo delle prime. In una sorta di cortocircuito che per l’osservatore occidentale risulta spesso incomprensibile: quegli stessi che ospitano gli americani sul proprio territorio pagano poi gruppi terroristici per ucciderli. Il califfato di al-Baghdadi, dal punto di vista dottrinario, parrebbe avere ben poco di diverso dall’Arabia Saudita, asserendo infatti l’obbligo alla conversione (o la condanna ad uno stato di sostanziale servitù) per gli «infedeli»; il vincolo, per ogni musulmano, di lealtà assoluta nei confronti del Califfo; il diritto-dovere alla violenza sistematica contro gli «apostati»; la sottomissione delle popolazioni conquistate; l’avversione dichiarata per lo sciismo, il sufismo (la componente mistico-spirituale dell’Islam) ma anche molte delle pratiche musulmane più diffuse. L’elemento di reale divisione è tuttavia politico: mentre l’Arabia Saudita è uno Stato che si rifà alla dottrina wahhabita ma, entro certi limiti, si impone quei vincoli che derivano dall’appartenere al consesso mondiali delle nazioni, l’Isis è un movimento in espansione che, all’opposto, trae giovamento dal giocare, al rialzo, la posta sul piatto dell’applicazione sistematica dei precetti del purismo. Anche da ciò, ovvero da questa lotta in corso, dove l’obiettivo è, da un lato, la piena autolegittimazione e, dall’altro, la totale delegittimazione altrui, deriva l’ondata di compiaciute brutalità con le quali il movimento ha dato manifestazione di sé, tra fucilazioni di massa, decapitazioni e proclami deliranti. Il tutto ripreso dal circuito dei media e poi debitamente amplificato e quindi messo in circolazione un po’ ovunque. I sauditi hanno quindi oggi due preoccupazioni: garantirsi il “fronte interno”, evitando che gli jihadisti tolgano loro spazio e influenza e, dall’altro lato, intervenire nell’ambito siro-iracheno condizionandone l’evoluzione delle cose. Sul primo versante, devono confrontarsi con le spinte estremistiche che ambienti interni stanno pervicacemente alimentando. Le invocazioni al jihad, alla «guerra santa», contro Damasco – il cui regime è raffigurato come l’estensione dell’arco sciita, portatore ed interprete degli interessi dell’Iran – si incontrano con il richiamo alla restaurazione di al-Sham, la perduta unità territoriale del Medio Oriente mediterraneo. Una “nobile causa”, se così la si vuole intendere, per la quale diede la vita anche Ibn Taymyya, pensatore, giurista e teologo, vissuto otto secoli fa e da sempre icona dei fondamentalisti islamici. La qual cosa rimarrebbe comunque confinata agli umori e alle fantasie degli estremisti se non fosse per il fatto che si incontra con i malumori crescenti espressi da una parte della popolazione arabica. Un sistema istituzionale completamente bloccato, cristallizzato sulla linea dinastica dei Saud; un circuito politico dove il potere decisionale è aprioristicamente consegnato ad una ristrettissima cerchia di famigli; una società dove i differenziali sociali sono parossisticamente pronunciati, costituiscono nel loro insieme elementi che, nella coscienza di molti, possono essere cambiati solo con il ricorso alla lotta armata. Nessun ricambio per via consensuale è infatti previsto dalle autorità medesime, al punto che fino a non molto tempo fa, se le cellule islamiste eterodosse rispetto al regime non venivano comunque perseguite – ma solo monitorate – dalle forze di sicurezza, qualsiasi tentativo di dare corso a una qualche forma di attività politica subiva invece l’immediata repressione. Fatto che ha permesso a molti gruppi del jihad di riparare in Arabia Saudita, rimanendo in sonno fino a questi ultimi tempi, quanto invece gli effetti di ricaduta, sul lungo periodo, del declino delle «primavere arabe» hanno rimesso in circolo la voglia di combattere, armi alla mano. Anche tra i giovani sauditi, che pensano e parlano di Damasco per osservare, e giudicare, i fatti di casa loro. Non è un caso, quindi, se sotto i vessilli mortiferi di al-Nusra, in Siria, siano periti già diversi sudditi dei Saud. Questi ultimi pensano con timore al possibile ripetersi delle ondate di ritorno di quei militanti che, una volta rientrati dall’Afghanistan, dopo l’intervento americano, diedero fuoco alle polveri del terrorismo interno nella prima metà del decennio trascorso. Peraltro è dottrina ufficiale della Casa regnante che Damasco sia comunque un pericolo, facendo per l’appunto parte, secondo tale impostazione, dell’anello sciita. Sul piano dell’influenza rispetto ai territori oggi in mano all’Isis, ed in particolare alla Siria orientale e all’Iraq occidentale, Riyad pensa con appetito al gas naturale disponibile in quei luoghi. Da notare, tra le altre cose, che mentre le più importanti infrastrutture estrattive siriane si concentrano nella regione orientale del paese, il distretto dell’Anbar iracheno, controllato dai miliziani neri, ha a sua disposizione il gigantesco complesso gasifero di Akkas. Da ciò derivano convergenze altrimenti imprevedibili, come quella intercorsa, sul piano tattico, tra gli Shammar, una tribù di grandi dimensioni, originaria dello Yemen e stanziatasi poi in Arabia Saudita, nella Giordania settentrionale e nell’Iraq meridionale, ostile a Saddam Hussein prima e ora a Bashir al-Assad, e la milizia curda siriana del Democratic Union Party, di matrice socialista e nazionalista. Il matrimonio d’interessi si è celebrato nel nome della comune avversione nei confronti di Jabhat al-Nusra, affiliata ad al-Qaeda, combattendo insieme per la liberazione della città siriana di Yarubiya, vicina al confine iracheno. Dunque, per i sauditi, se l’Isis avesse fatto al caso loro, come probabilmente è stato fino alla primavera di quest’anno, l’avrebbero sostenuto ancora; dal momento che le cose così più non stanno, Riyad si è subito preoccupata di rivedere le sue linee di condotta. Che adesso, con un certo qual paradosso, si incontrano con quelle di Washington e Teheran. Non è un caso, infatti, se i Saud abbiano in un primo tempo subito l’iniziativa politica iraniana che, nel pieno della querelle (a tutt’oggi aperta) sul suo potenziale nucleare, è riuscita a spostare l’attenzione da questa scottante questione all’avanzata dei miliziani neri tra il Tigri e l’Eufrate. Un’astuta manovra evidenziatasi con l’imbarazzate offerta – per la Casa Bianca – di collaborazione da parte del presidente iraniano Hassan Rohani. L’Arabia Saudita in un primo momento si è trovata messa all’angolo, insieme al Qatar, subendo così l’accusa di essere un paese trinariciuto, estremista, retrogrado e finanziatore dei peggiori tagliagola. Poi, nel maggio di quest’anno, la schiarita nei rapporti con Washington si era accompagnata all’invito, rivolto al ministro degli esteri iraniano, per la partecipazione al vertice dell’Organizzazione per la cooperazione islamica. Nel mentre, il sovrano saudita Abdullah si incontrava con il rais egiziano al-Sisi, per pubblicizzare l’asse Cairo-Riyad, con il duplice obiettivo di togliere ossigeno residuo ai Fratelli musulmani e mettere in sicurezza il Sinai. Condizioni per alcuni aspetti simili sono quelle che in questi ultimi tempi sono state registrate in un’altra area caotica, ossia la Libia. Per meglio dire, quello che di essa rimane. Infatti, va letta in tali termini l’azione di un altro militare, il generale Khalifa Haftar, caduto in disgrazia negli anni di Gheddafi, legato quindi a doppio filo agli americani, anche per conto dei quali dal 2011, una volta rientrato in patria, postosi a capo di una sua milizia, ha combattuto contro il regime allora vigente. Attualmente considerato tra gli elementi di vertice delle truppe libiche, ha condotto, soprattutto a Bengasi, una durissima serie di operazioni contro le milizie fondamentaliste, cercando di contendere loro la linea di confine desertica che separa il paese dal’Egitto.

 

16.  Le preoccupazioni saudite da tempo si concentrano però sul Sinai. Dopo la caduta di Morsi l’area peninsulare è divenuta una terra pericolosa. In essa vi opera, tra gli altri, Ansar Bait al-Maqdis (i «Sostenitori del sacro sito»), gruppo salafita le cui attività terroristiche, intraprese dal 2011, si sono intensificate nell’ultimo anno, reclutando beduini ma anche uomini di altre comunità o nazionalità. Riyad, del pari a Washington, ha messo sulla sua lista nera la formazione armata. La quale, legata a doppio filo alla Fratellanza egiziana ma anche ad Hamas, che a sua volta può contare su robusti rapporti con le comunità e i clan beduini, è tra gli attori occulti nella recente fiammata di violenze che hanno interessato la Striscia di Gaza. Non solo rispetto allo scenario siro-iracheno ma anche nel Sinai l’Arabia Saudita fa quindi i suoi conti in merito alla fondamentale politica energetica. La penisola egiziana, del pari alla regione irachena di al-Anbar, conta sia su infrastrutture energetiche che su una fitta rete di traffici commerciali, in grande parte illegali o comunque di materiale illecito. Il contenzioso tra le tribù beduine, che interpretano il Sinai come terra arabica, e il Cairo è tanto vecchio quanto aspro. Nella penisola si contano almeno quattordici clan maggiori, che si considerano discendenti dei cavalieri arabici, spartendosi l’area in zone di influenza. Rifiutano l’idea di ritenersi egiziani, rigettandone di fatto la nazionalità e reputando la presenza di lavoratori provenienti dall’Egitto africano al pari di intrusi. C’è una questione di fondo, che deve essere richiamata, a questo punto della riflessione. Il movimentismo jihadista non è in contrapposizione ideologica con l’identità saudita ma ne mina l’azione geopolitica nella sua natura di controrivoluzione permanente. Tutto l’impegno dei Saud, infatti, è stato profuso per rigenerare e consolidare instabili e precari equilibri a proprio favore, piegando spregiudicatamente le forze del radicalismo islamista, sulle quali da decenni vanno facendo investimenti, in base ad un’azione di sostegno selettivo. Il wahhabismo ha rappresentato la cornice ideologica di questa politica di lungo corso. A bocce ferme, quando lo scontro, nei decenni trascorsi, era tra “laici” e religiosi”, tra nazionalisti e panregionalisti, marxisti e conservatori, poteva funzionare egregiamente. Ma ora, la vera natura del gioco ha visto cambiare i protagonisti. La maturazione delle rivolte arabe di questi ultimi anni (che non hanno trovato alcun sbocco politico), la riconfigurazione del Medio Oriente per parte americana, prima ancora il declino dell’Unione Sovietica, hanno accelerato i percorsi e i processi di ridefinizione dei confini tra gruppi e comunità. In ciò, come già si è avuto modo di osservare, la crisi della forma Stato-nazionale sta pesando enormemente. Il confronto è quindi divenuto inframusulmano. Basti ricordare, al netto delle dichiarazioni roboanti, che servono a gonfiare il petto, a serrare le file e a garantirsi una generazione di nuovi “martiri”, che i gruppi jihadisti presenti in Medio Oriente e in Africa hanno, nonostante tutto, obiettivi relativamente circoscritti (anche perché non avrebbero le risorse per andare oltre): così per al-Shabaab in Somalia; per Boko Haram in Nigeria; per al-Qaida nel Maghreb islamico (Aqim) in Algeria e Tunisia; per al-Qaida in Arabia Saudita (Aqap) e nello Yemen. Oltre alla logica movimentista, che di per sé è già generatrice di risorse e macina utili per chi è capace di capitalizzarli a proprio beneficio, l’insieme di queste fazioni, che quando si incontrano entrano spesso in attrito e poi in lotta tra di loro, condivide l’obiettivo di istituire Stati di stretta osservanza islamica nei rispettivi teatri di combattimento. Di fatto questi ultimi costituiscono la copertura dentro la quale esercitare non solo un potere incontrastato ma, in prospettiva, garantirsi i benefici che l’esercizio monopolistico della forza offre sempre a chi ne sa fare appropriato ricorso. Dopo di che, tutto il resto è oggetto di competizione. La somma di tanti feudi islamici non darà mai potenza ad un progetto globale. L’Isis, malgrado tutto, non ha cambiato i termini della questione. Piuttosto, ha sapientemente giocato sul piano della comunicazione globale, cercando – con successo – di raccogliere la considerazione collettiva per un conflitto che, fino a pochi mesi fa era considerato marginale, spostando infine il fuoco dell’attenzione su di sé. Questo nulla toglie al suo potenziale deflagrante. Se non altro poiché rafforza, sul breve e medio periodo, altri attori. È il caso dell’Iran che, in tale modo, sembra essere riuscito in due obiettivi: uscire dal cono d’ombra nel quale l’aveva gettato la presidenza di Mahommud Ahmdinejad e fare dimenticare temporaneamente il dossier nucleare, che lo vede in prima fila negli sforzi per raggiungere l’autosufficienza in materia. La guerra civile in corso nell’area sta ottenendo l’effetto di rafforzare le componenti filo-sciite, in Siria come in Iraq, malgrado la rovinosa gestione di Nuri al-Maliki. Da ciò, ancora una volta, le preoccupazioni saudite. Sono state rafforzate le difese al confine con l’Iraq, così come sta facendo il Kuwait, mentre si osserva con preoccupazione crescente l’atteggiamento delle minoranze nazionali sciite, che ascoltano con attenzione la predicazione, di fiamma e di fuoco, dell’ayatollah Ali al-Sistani, venerando le città sante di Najaf e Kerbala. La chiave di volta nello scenario sempre di più sarà costituita quindi dalla conflittualità infra-sunnita. Se i grandi attori internazionali dovessero investire per alimentare le divisioni intercorrenti tra le diverse fazioni in campo, allora l’azione dell’Isis potrebbe avere i giorni contati. Le tribù sunnite dell’Iraq occidentale, ad esempio, aspirano ad incrementare l’autonomia da Baghdad, per ottimizzare le loro capacità economiche. Così come la violenza e la tracotanza di al-Baghdadi e dei suoi uomini gli hanno già alienato una parte delle simpatie di alcuni gruppi locali. Alla notizia che al-Maliki si sarebbe ritirato, una ventina di essi si sono alleati con quello che resta del governo iracheno per contrastare l’azione dei tagliatori di teste. E nel deserto, come nelle aree urbane, operano altre fazioni come l’Esercito dei Mujahideen, l’Ordine Naqshbandi, l’Ansar al-Islam, il Consiglio generale militare dei rivoluzionari, i Consigli del risveglio. Che la partita sia aperta è quindi evidente. Non di meno, è altrettanto chiaro che nulla resterà come prima, una volta che il quadro generale dovesse risultare un po’ meno opaco di quanto non lo sia ancora in questo momento.

(Fine – gli articoli precedenti sono stati pubblicati sulle edizioni di domenica 24 agosto, domenica 31 agosto e domenica 7 settembre 2014 della newsletter)

Claudio Vercelli