Berlino: “Fermare l’odio”

rassegna“La scena di ieri alla Porta di Brandeburgo, è destinata ad entrare nelle fotografie che hanno fatto la storia della Germania come storia dell’umanità. Per il luogo, ma anche per la responsabilità che la politica prende su di sé quando molte voci tacciono.” Così David Bidussa, sul Corriere della Sera, commenta la partecipazione della cancelliera Angela Merkel alla grande manifestazione contro l’antisemitismo che si è tenuta ieri alla Porta di Brandeburgo, organizzata dalla comunità ebraica tedesca. Il rimando, per lo storico sociale delle idee, è a un’altra immagine molto potente, del dicembre 1970, quando, fuori protocollo, Willy Brandt si inginocchiò di fronte al monumento che ricorda il luogo in cui una volta sorgeva il Ghetto di Varsavia. Prendeva su di sé pubblicamente e ufficialmente la responsabilità del passato del suo paese, così come ieri Angela Merkel ha pubblicamente e ufficialmente assunto su di sé, scrive Bidussa, “il compito di rispondere preventivamente ai piccoli o limitati segni di un possibile ritorno dell’antisemitismo nel proprio territorio.” Inoltre la sua presa di posizione è stato anche un atto forte in nome dell’Europa, cosa che “ci dovrebbe dare da pensare su cosa significa oggi assumersi la responsabilità di fare una politica europea.”
Sempre sul Corriere il corrispondente da Berlino racconta come la parola d’ordine della manifestazione sia stata “Mai più odio contro gli ebrei”, a spazzare via ogni dubbio sulla volontà del governo di combattere con forza il risorgere dell’antisemitismo che, alimentato negli ultimi mesi dalle manifestazioni anti-israeliane, ha portato fra giugno e luglio a 159 atti di antisemitismo. Per Angela Merkel “L’ebraismo è parte della nostra identità, chiunque colpisce chi indossa una kippah colpisce tutti noi, chi distrugge una tomba distrugge la nostra cultura, chi attacca una sinagoga attacca le basi della nostra società libera”. Gli ebrei che vivono in Germania, caso unico in Europa, sono aumentati notevolmente negli ultimi anni: “Sono oltre centomila, si tratta di un miracolo e di un regalo che ci riempie di gratitudine”.
Il Quotidiano Nazionale pubblica l’immagine di una vetrina con la scritta “Juden” come ai tempi nazisti e cita il presidente del Consiglio Centrale degli Ebrei, Dieter Graumann, che ha sollecitato un atteggiamento più determinato: “Mai e poi mai mi sarei immaginato di dover manifestare in Germania contro l’antisemitismo. Adesso basta” ha tuonato Graumann riferendosi ai “peggiori slogan antisemiti risuonati nelle strade tedesche da molti decenni. I nostri incubi, i miei incubi sono stati ampiamente superati”.

A Milano sono molto evidenti in questi giorni l’interesse e l’affetto della città nei confronti della comunità ebraica ebraica, con tutti gli eventi della seconda edizione del festival internazionale di cultura ebraica Jewish and the City letteralmente presi d’assalto da un pubblico numerosissimo. Sulle pagine milanesi del Corriere Paola D’Amico riporta che nella zona della sinagoga di via Guastalla, ieri centro della manifestazione, sono stati trovati dei volantini antisemiti, ma nulla ha fermato la grande folla e le presenze istituzionali, e oltre al sindaco Giuliano Pisapia e tre suoi assessori erano presenti il presidente della Provincia Guido Podestà e il parlamentare pd Emanuele Fiano. Il rabbino capo di Milano Alfonso Arbib ha ricordato che “La libertà è dire ‘no’ a deliri e convenzioni. Essere capaci di non assuefarsi ai deliri collettivi, dire no e pensare con la propria testa”. Dopo Walker Meghnagi, presidente della Comunità ebraica, e l’assessore alla Cultura Daniele Cohen, il sindaco Giuliano Pisapia ha detto, nel suo intervento alla sinagoga di via Guastalla “Jewish and the city veicola il messaggio che la cultura e la conoscenza possono essere strumenti efficaci per evitare dissidi e guerre. Stiamo vincendo la scommessa di essere uniti anche nelle differenze ed è importante che in tempi di guerre e focolai di crisi coloro che vogliono la pace e il dialogo stiano insieme nel solco dell’interculturalità”.
Il Corriere Milano presenta la lectio magistralis che terrà oggi Haim Baharier alle Gallerie d’Italia, presentato da Filippo Timi. Durante l’intervista un’anticipazione dei temi che verranno presentati: “Nella narrazione biblica dell’uscita dall’Egitto mai compare la parola ‘libertà’. Semmai profumano di libertà le parole del faraone. Mosè chiede che il suo popolo venga cacciato, ma il faraone lo rassicura: perché non adorare il dio d’Israele restando in Egitto? Perché scegliere il deserto? Perché, per venire ai giorni nostri, rinunciare al servizio sanitario gratuito nazionale? In effetti, quasi nessuno del popolo schiavo ha voglia di andarsene. Ecco allora abbattersi sull’Egitto le piaghe. Colpiscono tutti. Il faraone non se la prende con il popolo di Mosè: lui si reputa un dio, e che un altro dio se la prenda e punisca, ci sta; è una faccenda tra colleghi.

“Quel silenzio sul Califfo” è il titolo di un lungo intervento su la Repubblica, in cui Gad Lerner scrive che “Nei blog frequentati dai musulmani residenti in Italia le farneticazioni complottiste sulla reale natura dello Stato Islamico sembrano riempire un vuoto dettato da paura, reticenza, omertà ma anche, in taluni casi, malcelata o intimorita ammirazione. Un disorientamento di fronte al fatto nuovo che fino ad oggi ha come imbavagliato, paralizzato, la multiforme galassia islamica radicata in Italia da almeno due generazioni.” Continua segnalando il silenzio di coloro che “dovrebbero sentirsi i più offesi e i più danneggiati, visto che l’offensiva terroristica dispiegata fra Siria e Iraq si arroga niente meno che la pretesa di rappresentare una diretta eredità del Profeta”. I portavoce delle comunità islamiche nei comunicati fino a poco fa neppure citavano l’Is, probabilmente dovuta in parte alla consapevolezza che tra i frequentatori delle moschee esiste un certo consenso per i miliziani jihadisti. Lerner continua: “Quando si tratterebbe di lanciare una sfida pubblica durissima contro chi macchia il nome dell’Islam, si registra invece una tendenza alla divagazione. L’espediente più classico è anteporre sempre e comunque la denuncia dei crimini di guerra israeliani alla critica del terrorismo jihadista.”

Milena Gabanelli e Giovanna Boursier hanno scoperto che in Italia vige ancora il divieto, per le società d’ingegneria, di lavorare per imprenditori privati, residuo della legislazione razziale fascista che voleva evitare che gli ebrei potessero “nascondersi” dietro società formate da gruppi di professionisti. Il Mattino scrive che sarebbe bene riflettervi leggendo l’appendice che Anna Foa ha scritto per “Il braccialetto”, di Lia Levi, dove la storica spiega l’importanza dell’apertura degli archivi di Pio XII per fare piena luce sulle posizioni del Vaticano sulle leggi razziali.

Ada Treves twitter @atrevesmoked

(15 settembre 2014)