Qui Pordenone – Festival alle ultime battute
Tradurre e interpretare la poesia

20140920_163159Le traduzioni di opere letterarie risentono inevitabilmente della personalità di chi le scrive e dello spirito dell’epoca in cui vengono realizzate, un po’ come avviene quando si esegue un brano musicale in un anni diversi dalla data di composizione e senza esserne stati gli autori. Sono delle interpretazioni e quindi ha senso che ce ne sia più di una per lo stesso testo, in particolare se si tratta di poesia, ed è stimolante assistere, com’è avvenuto a Pordenonelegge, al dialogo, mediato con competenza da Alberto Casadei, fra Gianfranco Lauretano e Paolo Ruffilli, entrambi traduttori di poesie scritte da Osip Mandel’štam (1891-1938). Filo rosso fin dalle prime battute è l’opera di Dante, la Divina Commedia in particolare, ben conosciuta dall’autore russo, sia in traduzione sia in italiano, lingua che conosceva come anche il tedesco, il francese, lo spagnolo e l’inglese. Ma anche la musica, la cui conoscenza gli derivava dalla madre pianista e per lui fondamentale anche nella creazione poetica. Come riferisce Ruffilli, curatore e traduttore dell’antologia “I lupi e il rumore del tempo”, “all’orecchio risuonava ossessiva, prima informe, poi sempre più definita, ma ancora senza parole, una frase musicale che ripeteva spesso tra sé” risolvendosi poi in un’inquietudine che lo costringeva a muoversi. Solo in un secondo momento, “attraverso il tessuto della frase musicale si facevano improvvisamente strada le parole”. Lauretano approfondisce invece il percorso storico della raccolta “La pietra”, da lui tradotta, la cui versione definitiva, dopo quattro rimaneggiamenti pubblicati in momenti diversi tra il 1913 e il 1928, non è mai stata rivista dall’autore. È difficile anche farne una ricostruzione filologica, dal momento che molte delle poesie sono sopravvissute grazie alla tenacia della moglie, la pittrice Nadežda Jakovlevna Chazina, che le aveva imparate a memoria per salvarle dalle requisizioni dei funzionari di partito. Forse, ciò che ha caratterizzato la vita di Mandel’stam è stato soprattutto il fatto di “non aver paura di dire”, un coraggio che rasentava l’incoscienza al punto di portarlo a scrivere e a recitare, nel novembre del 1933 una ferocissima poesia intitolata “Stalin”, in cui il dittatore sovietico veniva descritto come “il montanaro del Cremlino, lo sbaragliamugicchi, l’assassino”. Protetto negli anni precedenti dall’amico Bucharin finché fu possibile, fu allora, a seguito di delazioni, mandato al confino e da quel momento sempre più isolato. Riuscì a sopravvivere soltanto grazie al sostegno anche economico degli amici (Anna Achmatova e Boris Pasternak, tra gli altri). Nel 1937, già consapevole della propria fine imminente, scrisse, per salvare la moglie, un’ “Ode” coatta a Stalin, da cui derivò, per contrapposizione, un’ultima stagione creativa, prima dell’internamento nel gulag di Vtoraja rečka. Chi si trovò con lui nel vagone che lo avrebbe portato alla morte raccontò di averlo sentito recitare a memoria e in italiano, i versi della Divina Commedia, da lui tanto amata per dar sostegno ai compagni di quell’estremo viaggio.

Paola Pini

(22 settembre 2014)