Pensare il radicalismo islamico

vercelliIl tempo, per il radicalismo islamico, è una variabile fondamentale. Ben più dei luoghi dei quali, invece, contesta la rilevanza. Se infatti esso si presenta come un movimento globalizzato ed universalista, presente ovunque ma radicato in nessun luogo (si pensi ad al-Qaeda), in sintonia con l’idea di massima mobilità che si accompagna alla globalizzazione, ben diverso è il discorso per la funzione del tempo. Il quale assume due significati: quando si fa storia è la dimensione, per definizione, della decadenza, ossia del manifestarsi della perdita di una purezza che in origine sarebbe invece esistita, ai tempi del Profeta, ovvero la purezza del combattimento per la conquista; ma è anche il contesto in cui oggi si manifesta lo sforzo per ovviare a questo declino. Il tempo, nella logica islamista, è un eterno presente, nel quale si debbono recuperare i valori assoluti che sono tramandati da un passato mitologico. Il che mette in relazione ascesa-caduta e risollevamento, tre momenti della parabola umana in cui la storia viene sostituita da una visione degli ordinamenti collettivi come elementi della perversione, ai quali solo il radicalismo sa contrapporre una vera e propria rigenerazione, una catarsi totale. Un ulteriore elemento va poi aggiunto. Il fondamentalismo (benché ambisca a presentarsi al pubblico in maniera apparentemente opposta), non è mai un recupero della tradizione religiosa in quanto tale, che semmai tende a sovvertire se non addirittura a leggere come luogo dell’empietà né, tanto meno, un’ortodossia che si invera. Ciò perché ha bisogno di crearsi una tradizione fungibile ai suoi scopi. Semmai, di quel che è stato raccoglie solo alcuni aspetti, quelli che possono risultargli come maggiormente funzionali al momento. Comunque, non si rivolge a quanto gli è preesistito se non nel senso di farne un uso selettivo, in funzione delle mutevoli occorrenze del proprio tempo. Non solo non è interessato a recuperare una tradizione che vede come il suggello di un inaccettabile scorrimento del tempo, ma recepisce la complessità e la stratificazione della ricostruzione teologica come una contraddizione in termini rispetto alla linearità e all’autoevidenza dei principi che dice di volere ripristinare. Per tali ragioni rompe anche con le catene dell’ortodossia, tanto più laddove queste hanno dato sostanza e corpo a una qualche forma di sacerdozio e a dei ritualismi che vengono letti come segno di quietismo. Il fondamentalismo, quindi, è al medesimo tempo una frattura e una riconciliazione. Una frattura rispetto alla “modernità traditrice” (nel senso che assolve il ruolo di rivelare il dominio dell’empietà che accompagna la decadenza del mondo e dell’uomo) e alla “tradizione occultatrice” (quella clericale, codificata nelle religioni come culti: la sua stratificazione culturale e simbolica è il segno indiscutibile, da tale punto di vista, di volere intorbidare le acque, rendendo difficile, e quindi incomprensibile ai più, il disegno divino); una ricomposizione perché accetta la sfida che la modernità detta sul piano non dei fini bensì dei mezzi. Facendo quindi propri questi ultimi. Non esiste nessun fondamentalismo, men che meno quello islamico, che non si presenti allo sguardo altrui attraverso i più recenti mezzi della comunicazione. Che gli sono consustanziali, divenendo addirittura degli specchi identitari. Tratto precipuo dei fondamentalismi è inoltre l’anti-individualismo (dal quale fanno poi derivare l’avversione per la democrazia, vista come il regime politico per eccellenza dell’individualità), ovvero l’affermazione che il soddisfacimento dei bisogni collettivi non può avvenire che a scapito del riconoscimento dell’autonomia della sfera individuale. Innervandosi e ramificandosi in società in cui la loro espressione è impedita attraverso gli abituali percorsi della rappresentanza politica, laddove la mobilità sociale è cristallizzata o semmai discendente, i movimenti radicali su base religiosa si richiamano alla tradizione delle fedi di riferimento reinventandone molti aspetti. In tale modo circoscrivono una sorta di comunità di destino, dove l’identità individuale si scioglie nell’appartenenza collettiva. Provvedono quindi a delimitarla, dandole uno spessore ideologico e una presunta continuità nel tempo. Un tempo che non è solo proiettato in avanti, ossia nel progetto in divenire, ma anche all’indietro, in quanto il radicamento del fondamentalismo deve essere per forza di cose “storico”, presentandosi, pur nella sua qualità di novità politica, eminentemente come una sorta di ritorno di un passato tradito, solo ora recuperato a migliore considerazione. In tale modo, stabiliscono una dialettica tra individui ingroup ed outgroup, interni ed esterni, basata su una presunta moralità, presente nei primi e invece assente nei secondi. L’essere «fedeli», da tale punto di vista, implica l’aderire alla forma e all’idea di religiosità che il gruppo annette a sé, dichiarandosene depositario esclusivo: quindi al gruppo medesimo, che incarna i valori supremi e del quale, in ragione di ciò, si debbono fare proprie, a ricalco, tutte le proposizioni di principio. Non si è quindi fedeli islamici a prescindere da un qualche gesto di sottomissione al gruppo ma «buoni musulmani» solo ed esclusivamente se si fa propria la sua precettistica e l’ortoprassi che da tale atto di subordinazione consegue. Sul dominio del quotidiano, della sfera delle relazioni interpersonali, il fondamentalismo costruisce d’altro canto buona parte delle sue fortune. Il caso della centralità del corpo della donna, che non deve essere esposto al pubblico, è un simbolismo così potente da richiamare l’intero universo di significati che l’islamismo vuole attribuire all’incontro conflittuale che intrattiene con il tempo corrente e con la modernità. Poiché il processo di modernizzazione rimette in questione l’individuo essenzialmente in quanto attore a sé sufficiente, ridisegnandone la fisionomia e le funzioni in chiave autonoma, risulta chiaro come il modello di comportamento più pericoloso per la sfera religiosa, anche privata e soprattutto domestica, si presenti nella condizione femminile, laddove questa si caratterizza per la secolarizzazione dei ruoli. Il substrato teocratico dell’islamismo ha come riferimento un’ideologia della salvezza, la quale si scontra con il principio di laicità, quindi con la democrazia e la morale internazionale, rivendicando per sé un esclusivismo della rappresentanza che non ammette in alcun modo l’esistenza di una pluralità di figure sociali e la negoziabilità dei conflitti. Come ogni ideologia della salvezza, si tratta di un pensiero che si intende come totalizzante e, in immediato riflesso, totalitario, sovrapponendosi alle traiettorie di vita degli individui. Concretamente, il fondamentalismo islamico rifiuta la democrazia in quanto «soluzione importata», così come lo Stato nazionale laico, quest’ultimo poiché elemento di frattura nella coesione dell’umma musulmana. Nel mondo islamico storicamente lo Stato nazionale laico non si è dato come una creazione autoctona bensì come entità derivata dalla progressiva dissoluzione dell’Impero ottomano e dal dissolvimento del complesso, ancorché usurato, sistema di pesi e contrappesi politici che vi vigevano. Non di meno, il sopravvenire e il consolidarsi di strutture universaliste – a partire dai sistemi di garanzia sociale e di redistribuzione della ricchezza – che, in realtà, del pluralismo hanno coltivato solo l’aspetto formale, ossia nominalistico, è stato incentivato più dai processi di globalizzazione intervenuti nel corso del XX secolo che non da un’evoluzione propria, interna alle singole società arabo-musulmane. I fondamentalisti respingono peraltro la modernità culturale, e le sue ricadute sociali e politiche, ma non la sua dimensione istituzionale. Se il progetto culturale della modernità si basa sull’investimento (nel futuro) e sul convincimento che l’individuo possa plasmare il suo destino, per il tradizionalismo musulmano e il fondamentalismo islamico a dovere essere messo in discussione non è il suo respiro universale bensì la visione cartesiana del mondo, incentrata sull’uomo, nonché la fiducia nelle capacità della ragione umana, quand’essa si determina a spese della rivelazione divina. Non rigettano quindi i risultati tecnico-scientifici, piuttosto li piegano ad una rilettura del presente fortemente connotata su un piano valoriale. Il dilemma islamico nei confronti della modernità è pertanto risolto attraverso l’adozione selettiva di alcune sue componenti strumentali, rifiutandone invece in toto la razionalità e il sistema normativo che l’accompagna, laddove l’una e l’altro incentivano l’emancipazione individuale. Il razionalismo della scienza moderna – tuttavia – è estraneo non già all’Islam ma al fondamentalismo islamico. Basti ricordare, a tale riguardo, che del primo, in età medievale il razionalismo ellenistico era una delle fondamentali componenti di pensiero. Vale ancora la pena, a questo punto, di ritornare sulla questione della laicità. Poiché essa è uno degli indici più importanti nei processi di mobilitazione messi in atto dall’islamismo politico. Negli Stati nazionali mediorientali sorti a seguito della decolonizzazione, il mutamento politico non si è accompagnato alla differenziazione funzionale della società e ad una spiccata divisione del lavoro. La laicità si è quindi caratterizzata soprattutto come ideologia intellettuale, ossia come proposito normativo, patrimonio di circoli formatisi in Occidente o all’ombra dei paesi europei e degli Stati Uniti. Di fatto essa, tuttavia, ha difettato di basi strutturali, a partire da un ceto medio autonomo, non dipendente dalla pubblica amministrazione, in grado di farsene soggetto politico. I conflitti tra centro e periferia, tra città e campagna, tra prepotente urbanizzazione e perdurante ruralità, tra diffusa scolarizzazione e mancanza di sbocchi professionali sono quindi rimasti sospesi, durante i decenni trascorsi, tra il richiamo dottrinario a modelli astratti e astrusi e l’incoerenza delle politiche pubbliche. Il declino della sovranità nazionale, dettato dagli esiti dei processi di globalizzazione, è quindi letteralmente piombato su società incompiute, troppo avanzate per essere ritenute arcaicizzanti ma ancora troppo frenate per definirsi secolarizzate. Il collasso dei sistemi di welfare state locali, fortemente legati al clientelismo e al patrimonialismo dei gruppi di potere, ha innescato poi innumerevoli spinte centrifughe, che hanno offerto all’islamismo spazi altrimenti insperati. Nella controideologia dei fondamentalisti il laicismo è quindi raffigurato e risolto come elemento di una «congiura dell’Occidente» ai danni delle comunità autoctone, in funzione di una perdurante colonizzazione culturale. La mistica del complotto è una moneta comune nelle organizzazioni islamiste, che interpretano la storia come una realtà capovolta, dove la ragione e l’intelligenza dei fatti va cercata in ciò che rimarebbe nascosto allo sguardo abituale. La politica, infatti, viene ridotta a un terreno di contrapposizione violenta tra inconfessabili alleanze, tra fazioni rivali inconciliabili per le quali non esiste nessun spazio di mediazione. È stato osservato, al riguardo, come la specificità delle società arabo-musulmane contemporanee, benché estremamente diversificate tra di loro, stia nel fatto che esse presentino un’estrema difficoltà a plasmarsi secondo la razionalità degli Stati nazionali moderni, mentre le tendenze alla ricostruzione di comunità primordiali siano dappertutto, se non le più forti, per lo meno quelle produttrici delle maggiori tensioni identitarie. Nella dialettica negativa tra mancato radicamento nazionale e sradicamento globale quello che resta, agli occhi dei più, è il fallimento del primo e l’infelice successo del secondo, simboleggiato, anche nelle primavere arabe, dal tema persistente dell’oppresso, mostazafin, il derelitto come eletto, ossia come forza della storia. Peraltro, il problema del fondamento del potere e, quindi, in immediato riflesso, della natura dello Stato «giusto ed equo», poiché in accordo con il dettato coranico, accompagna tutta la storia musulmana, a partire dalla frattura tra sciiti e sunniti, tra imam e califfi, essendo l’epitome manifesta della contrapposizione sociale tra interessi in persistente conflitto i quali, attraverso il linguaggio della religiosità, già nel passato trovavano così il modo per esprimersi nello spazio pubblico. Il fatto che questo elemento ritorni prepotentemente in auge non indica la rivincita della religione ma la sconfitta dell’autonomia della politica. Il che, segnatamente, non è un problema solo per l’Oriente ma anche per l’Occidente, benché quest’ultimo lo risolva attribuendo oggi alla sfera economica un ruolo ordinativo che non gli dovrebbe appartenere comunque. Questo ed altro per affermare, ancora una volta, che il radicalismo islamista non è residuale, non costituisce una riaffiorante vestigia di ciò che è stato, riemergente in tempo di crisi, ma è il nuovo profilo che la politica nell’età della globalizzazione sta assumendo. Populismo e fondamentalismo sono compartecipi di molte avventure e condividono tratti culturali e ideologici ben più accentuati di quanto non si sia disposti ad ammettere.

(2/segue)

Claudio Vercelli

(28 settembre 2014)