Vittorio Dan Segre (1922-2014)

L’ebreo che voleva essere eroe

Dan Segre - ultimo libroVittorio Dan Segre, si sa, ama giocare con le grandi categorie dell’anima e della storia. La Fortuna, nel primo e “fortunato” libro, adesso l’Eroismo. Del suo (quasi) conterraneo Alfieri possiede senza ombra di dubbio il gusto coreografico, la concezione teatrale della storia, dei miti, della tradizione.
Per nostra (e forse anche per sua) fortuna a trattenerlo con i piedi sulla terra è la terra stessa dove è nato e dove hanno vissuto i suoi antenati. Il Piemonte ebraico, con la sue ironie, la sua filosofia pessimistica della vita, il suo scetticismo che vieta ogni indulgenza verso le arti della retorica, della scenografia e della finzione alla fine prevale. Delle due autobiografie che ha scritto, a una trentina di distanza l’una dall’altra (la Storia di un ebreo fortunato è del 1985) – una persistenza questa per il genere dell’autobiografia che è tipica ancora di un certo alfierismo di facciata -, dirò di prediligere la seconda, appena uscita da Bollati Boringhieri. La Storia dell’ebreo che volle essere eroe è opera di un autore che è riuscito finalmente a domare la potenza del super-io (nel primo libro ancora dominante) e naviga tranquillo e sereno, come uno Zeno redivivo, nell’oceano della senilità e del disincanto. Del piglio militaresco ereditato dal padre, cui sono dedicate le bellissime pagine iniziali, resta qualche pallido bagliore di ricordo: la pedalata in bicicletta da Govone a Parigi, i cavalli prestati al circo Buffalo Bill per la sua esibizione ad Asti, la nuotata con un vassoio di bibite fino alla boa per raggiungere un’amica.
Il tema della malattia e della vecchiaia è centrale in questo libro, ma è da rilevare l’altro grande tema di ogni autobiografia che si rispetti: quello della nostalgia e del rimpianto. Una figura centrale è rappresentata dalla ragazza araba, conosciuta in un ospedale, che per rimanere in ambito sveviano, per la sua bellezza e gioia di vivere, è una sorta di Angiolina. Qui il confronto avviene sul piano dei sentimenti, ma anche dell’incontro e non dello scontro tra culture. Nel primo libro la figura del personaggio-arabo era completamente assente, come del resto è assente nella quasi totalità delle testimonianze coeve di ebrei italiani trasferitisi provvisoriamente o definitivamente in Israele. In questo libro Samira è una vera e propria protagonista. Il libro si può dire che ruoti intorno alla sua grazia femminile: per sua virtù la prospettiva del conflitto arabo-ebraico e il futuro dell’area assumono un colore diverso, appunto meno alfieriano, meno strategico, meno accademico. È come se l’effetto dei sentimenti schiarisse la visuale sul buio dell’analista politico, del docente universitario, dell’esperto di strategie militari.
Interessante sarebbe poi seguire l’evolversi del rapporto dell’autore con la tradizione ebraica, che è per dichiarazione esplicita mutevole, ma in questo libro decisivo è il tentativo di trovare una risposta ai grandi quesiti dell’esperienza umana. In breve, si cerca di fare una sintesi, facendo tesoro dell’esperienza vissuta e soprattutto dell’esperienza della malattia. Non è questa la sede adatta per interloquire su questi argomenti: basterà dire, con buona dose di imprecisione, che in vecchiaia Dan Segre si è specializzato in un dialogo che sarebbe riduttivo e forse anche errato definire sincretistico, ma non è su questo terreno che vogliamo seguirlo.
Preferiamo rimanere sul piano dei fatti e della cronaca, per ricordare a lui e al lettore l’unico episodio che continua a rimanere oscuro pur dopo aver letto due autobiografie di uno straordinario narratore. In breve. Continuiamo ad ignorare i retroscena di un buffo episodio che riguarda non la biografia di Dan Segre, ma quella del nostro maggior Poeta.
Giunto a Gerusalemme per seguire nel 1964 la visita di Paolo VI, Eugenio Montale manda alcune brillanti corrispondenze al Corriere della Sera, che possono essere lette nel volume mondadoriano “Fuori di casa”. In una di queste Montale scrive: “Qui nella mia camera non si può spegnere la luce elettrica perché manca l’interruttore. Ogni sera viene un tipo negroide, un arabo di Gerico, che sale sul mio letto senza togliersi le scarpe e svita la lampada. Una notte, ebbi invece un lussuoso flat al King David: camera con bagno, salotto. Ma non possedevo nulla: né pigiama, né sapone, né rasoio, né pettine. Fui soccorso dalla moglie del nostro collega Segre, alla quale rendo qui le mie grazie. Il pigiama era però troppo lungo per me – e indossandolo esclamai per la prima volta in senso non traslato: ‘È un altro paio di maniche!’. Poi fui vinto dal sonno”.
Della signora Rosetta, moglie di Dan Segre, questo libro offre un ritratto straordinario, commovente, che Montale, memore di quel dono e di quel soccorso, avrebbe sottoscritto dalla prima pagina all’ultima. Se vogliamo saperne di più, sull’incontro non impossibile fra l’Eroe e il Poeta anti-eroe, restano per fortuna libri come questo.

Alberto Cavaglion

(28 settembre 2014)