Vittorio Dan Segre: “Israele, dignità della diaspora”

dan segreLe sette braccia della Menorah d’oro brillavano sulla copertina del passaporto teso per farsi identificare allo sportello di un cambiavalute di Chicago. Quel documento, uno dei primi emessi dallo Stato di Israele, era il simbolo per tutti gli ebrei del compimento di un sogno. Libertà, indipendenza, democrazia, sicurezza, nuova speranza. E, per la generazione di chi Israele l’ha costruito combattendo con determinazione, la soddisfazione di aver realizzato qualcosa di unico, di aver scritto un nuovo capitolo indelebile nel lungo itinerario del popolo ebraico. La ragazza dietro al banco sfiora con le dita il candelabro, si commuove, pronuncia infine per congedarsi solo una parola: Shalom. Un frammento riaffiora fra i tanti nei 90 anni di vita di Vittorio Dan Segre, pioniere sedicenne dopo essersi lasciata alle spalle l’Italia delle leggi razziste e delle persecuzioni, combattente per la liberazione, diplomatico, esperto di relazioni internazionali, docente nelle più prestigiose università del mondo, confidente dei grandi leader, giornalista, scrittore. Un frammento apparentemente trascurabile nell’ambito di una vita troppo grande per entrare nelle colonne di un giornale, per stare in un solo libro. Eppure, fra le tante emozioni in guerra e in pace, fra le innumerevoli avventure, l’emozione più grande è quella di dire Israele.
“È la storia di un ebreo fortunato”, mormora ironico Segre, riprendendo il titolo del suo indimenticabile libro di memorie apparso 30 anni fa e indispensabile punto di riferimento per comprendere il Novecento di tutti gli ebrei italiani e di tutti coloro che a Israele hanno donato i propri anni migliori. Oggi, sfogliando assieme in anteprima le pagine di un nuovo libro ancora inedito, la sua ultima testimonianza, un romanzo fortemente autobiografico, ancora Israele e ancora la propria identità indelebile di ebreo piemontese tornano a intrecciarsi indissolubilmente.

Settantaquattro anni per Israele e ogni stagione vissuta fino in fondo, da conoscitore e da protagonista. Le difficoltà che attraversiamo oggi e le sfide di una realtà preziosa e minacciata sono più facili da sopportare quando si conta su un’esperienza tanto lunga?
Israele al momento della conquista della libertà è stato un sogno molto ardito, molto difficile. Allora era tutto molto più difficile, oggi abbiamo motivo di essere più ottimisti.

Eppure il tentativo di delegittimazione oggi è molto forte e molto insidioso.
Spesso dimentichiamo che fino al 1967 Israele è stato il beniamino dell’Occidente e dei Paesi africani di cui mi sono occupato nel corso della mia carriera diplomatica. Allora nessuno si preoccupava se Gerusalemme costruiva alloggi. Il processo di isolamento e delegittimazione è cominciato dopo, quando l’Opec e l’Arabia Saudita hanno compreso la potenza dell’arma del petrolio. Il prezzo del greggio si è moltiplicato più volte. Nel 1975 siamo arrivati alla dichiarazione delle Nazioni Unite che dichiarava a grande maggioranza il sionismo una forma di razzismo, si faceva strada l’idea di espellere Israele dall’Onu.

E oggi?
Gli equilibri energetici stanno per rovesciarsi. Il petrolio perderà il proprio ruolo di arma di ricatto, gli Usa conquisteranno la propria indipendenza sfruttando nuove fonti e nuove soluzioni. E anche Israele si accinge a sfruttare gli immensi giacimenti di gas naturale scoperti recentemente al largo delle sue coste.

Eppure Israele è sotto attacco.
Certo, ma anche in questo caso sono stati compiuti progressi importanti. La costruzione della barriera difensiva ha molto limitato le attività terroristiche e il successo delle tecnologie antimissile per neutralizzare la pioggia di razzi sparati da Gaza contro la popolazione civile israeliana è destinato ad assumere una valenza storica. Certo i pericoli esistono, ma per chi ha vissuto in prima persona la guerra del 1948 alcune difficoltà di oggi, per quanto gravi, fanno sorridere. In 19 mesi laceranti abbiamo allora avuto una percentuale di vittime in proporzione paragonabile alla sofferenza di tutta la Francia durante i cinque anni della Prima guerra mondiale.

Oggi Israele è più forte?
Sì, ma anche più fragile. La sua prima debolezza è la larga percentuale di opinione pubblica che non può resistere alla tentazione di voler essere amata prima ancora che rispettata. E il rispetto si ottiene quando si è capaci di unire la forza con la dignità.

Oggi alcuni ritengono che la società israeliana e il suo mondo politico sono molto cambiati in questi ultimi anni.
Quando sono arrivato, nel 1938, su tutta la Palestina mandataria britannica vivevano circa 600 mila ebrei. Oggi 7,5 milioni di ebrei vivono su una sola parte di quel territorio e sullo stesso territorio i palestinesi si attendono la costituzione di un loro stato. Un cambiamento demografico e culturale così radicale non può non comportare anche delle profonde mutazioni politiche e il risultato è stato che l’elettorato israeliano si è spostato nettamente a destra. La politica è in continua evoluzione e nessuno è profeta, ma Netanyahu ad oggi sembra l’unica soluzione praticabile.Ha un solo nemico che può batterlo: se stesso. Ha da preoccuparsi solo della tentazione di abusare della propria forza.

E il voto dell’Onu?
Non credo che sposti qualcosa. L’interlocutore, come hanno dimostrato anche i recenti avvenimenti bellici, non è più l’Autorità palestinese di Abu Mazen, ma Hamas. E la strategia di Israele si sposterà sempre di più verso un confronto con queste forze con le quali è già stato raggiunta una tregua. Hamas ha qualcosa da offrire, Abu Mazen non ha niente da mettere sul tavolo e se lo avesse non sarebbe comunque in grado di controllare la situazione.

E la cosiddetta primavera araba?
Alla lunga sortirà effetti positivi. Nascono problematiche nuove nell’ambito delle quali il problema di Israele non è più fortunatamente al centro dell’attenzione delle masse arabe insoddisfatte. E il petrolio potrebbe diventare rivelarsi un’arma spuntata.

Cosa è cambiato nella Diaspora in questi anni?
C’è qualcosa di nuovo nella coscienza collettiva degli ebrei, qualcosa che nell’Italia che ho lasciato a 16 anni, nel 1938, non esisteva. Un senso di dignità che solo la creazione dello Stato di Israele poteva restituire.

L’ottimismo allora è giustificato?
Pessimismo e ottimismo non hanno ragione di essere. Il problema del popolo ebraico è quello di non poter svanire nella storia così come hanno fatto gli altri popoli dell’antichità, anche se c’è chi fa il possibile per provarci. E’ tempo che si dica che l’ignoranza da una parte e l’assimilazione dall’altra sono per noi una ferita molto più grave di quello che è stata la ferita terribile della Shoah.

Un nuovo libro ancora inedito, a trent’anni di distanza e questa volta in forma di romanzo, torna ai grandi temi che hanno segnato la sua vita. Cosa deve aspettarsi il lettore?
Ho scritto ancora un libro, forse a conclusione di questo capitolo della mia lunga esistenza. Volevo esprimere certe idee in maniera più libera utilizzando la formula della letteratura, e mi sono arrischiato su questo terreno. Perché la letteratura è l’unica forma di profezia che oggi ci sia consentita. Volevo raccontare qualche passaggio di una vita tutta attraversata, e non per mio merito, dalla realtà del miracolo. Volevo lasciare un messaggio ai miei figli, ai miei nipoti, a qualche mio studente, ma non so se sarà colto, perché il contenuto di un libro è sempre triplice: quello che l’autore ha scritto, quello che il lettore pensa di aver letto e quello che l’autore crede di aver messo sulla pagina. E’ stata un’esperienza difficile, mi ha preso diversi anni, ma mi ha insegnato molto.

Quando sarà pubblicato?
Non lo so, non ne sono ancora del tutto convinto. Alcuni amici lo stanno prendendo in mano e mi attendo le loro critiche. È la critica che aiuta, non l’applauso.

C’è un grande dibattito riguardo all’estremo pluralismo interno al mondo ebraico. Dobbiamo accettarlo con favore o preoccuparcene, vedevi un segno di disgregazione?
La vita mi ha insegnato che la paura non esiste, è solo una scusante per coloro che non hanno la volontà di fare o per coloro che sanno solo fare male. Accettare la diversità è l’unico elemento di forza che abbiamo a disposizione e tutta l’azione che possiamo davvero esercitare non sta nel pretendere qualcosa dagli altri, ma nel cambiare noi stessi. Se ciascuno spazza davanti a a casa sua, dicono gli olandesi, tutta la città è più pulita.

E questa regola deve aiutare anche chi lavora sul fronte dell’informazione? Sul numero zero di Pagine Ebraiche lei pose una breve nota, “avete rimesso in piedi un cadavere”. La pensa ancora così?
Sì, quando lo sfoglio mi tornano vive in mente le parole di una persona che mi è molto cara: “L’ebraismo italiano è la prova della vita dopo la morte”.

Lei ha dedicato a Israele 74 anni della sua vita, eppure è rimasto un ebreo fieramente piemontese, oggi il suo viaggiare avviene soprattutto fra Gerusalemme e l’antica casa di famiglia nel Roero. Dove si trova meglio a suo agio?
In Piemonte ci sono le mie radici, a Gerusalemme ci sono i miei amici.

In queste parole lei mostra il segno della sua amicizia più cara, quella con il rav Adin Steinsatz.
È un maestro che mi aiuta a a cercare una risposta all’ultima domanda.

Quale domanda?
Se mi è stata allungata la vita per darmi l’occasione di peccare più a lungo, o la possibilità di cercare la redenzione.

Guido Vitale, da Pagine Ebraiche, gennaio 2013

(28 settembre 2014)