Vittorio Dan Segre (1922-2014) L’ultimo libro per raccontare il rigore che vola in alto

librodansegreDelle tante cose che ha detto, qui ed altrove, lui che era anche un retore di una potenza assai rara, una colpisce più delle altre. Ad un certo punto, infatti, parlando di sé, delle sue vocazioni, ma anche delle circostanze come del caso, commenta alcune scelte professionali affermando che «le scienze politiche sembrano fatte apposta per me o per tipi come me, che della scienza hanno le pretese ma non le capacità e della politica l’ambizione ma non la responsabilità».
Così Vittorio Dan Segre, nel suo ultimo libro, postumo, dedicato alla Storia dell’ebreo che volle essere eroe (Bollati Boringhieri, Torino 2014). Un’autobiografia che letteralmente ci cade tra capo e collo nel mentre l’autore si è da poco congedato da noi e dal resto del mondo. Di lui sapevamo già molto, ma non troppo e mai a sufficienza. Se ne è andato quasi in punta dei piedi, in accordo con uno stile, il suo, che gli era anche e soprattutto sostanza morale, in pieno contrappasso ad una vita trascorsa invece a tamburo battente, attraversando le temperie del Novecento. Vivendole, condividendole e combattendo, con le armi della critica ma anche con la critica delle armi. Fin troppo facile cadere nell’elogio postumo, in una retorica celebrativa che rende omaggio ad una figura fondamentale dell’ebraismo italiano riconducendo la persona concreta al solo personaggio pubblico. L’avrebbe aborrito lui medesimo, odiando i pantheon e le musealizzazioni, dove si mettono le sacre salme per accertarsi che sono scomparse davvero una volta per sempre. E tuttavia la tentazione di leggere la sua esistenza come una sorta di cartina di tornasole di eventi, avvenimenti e soggetti collettivi, ovvero proiettando la sua persona su qualcosa di più grande, è troppo forte perché venga lasciata a se stessa, ossia insoddisfatta. La sua biografia in forma letteraria è quindi la summa del suo registro personale, quello che intratteneva nei rapporti individuali come nel suo modo di agire in pubblico. Lo stile a tratti caustico, un po’ sornione, sempre arguto e pensieroso, problematico e non rassicurante a prescindere, introduce e accompagna ognuno di noi a quell’intreccio tra pubblico e privato che per tutta la sua lunga esistenza, novantadue anni in piena lucidità, gli ha fatto da cornice. Il tratto d’unione tra le tante cose dette e qui scritte è la cognizione del corpo come potenza e come vincolo, come opportunità ma anche come limite. Laddove il sogno di potenza illimitata del giovane si stempera, passo dopo passo, in consapevolezza di una ragionevole e amministrabile impotenza.
L’ombra della malattia è presente quasi in ogni pagina, anche dove non se ne fa menzione alcuna. Non per atterrire anticipatamente il lettore e neanche per giustificare, tanto meno per assolvere, bensì per dare spazio al senso della vanità dell’esistenza, soprattutto quand’essa si erge a giudice del mondo. La coscienza di Vittorio è allora quella di un liberale che vive, nel corpo e nello spirito, la lotta consapevole tra gli esiti dell’emancipazione risorgimentale, che in certi momenti si è fatta assimilazione, e una domanda radicale sull’identità. Laddove quest’ultima non coincide con l’anima bensì con il senso dello stare al mondo, ossia in questo mondo.
L’ebraismo è il pacchetto delle spezie in questa cucina della comprensione di sé e degli altri. Per questo la sua autobiografia, nel libro che ci consegna adesso che non c’è più, come negli altri testi che lo hanno preceduto nel tempo, diventa anche biografia di gruppo. Il tutto mediato attraverso il dolore fisico, che è un filtro nelle relazioni con se stesso, perimetrando attraverso la cognizione del peso della carne il proprio spazio, così come il rapporto con le donne lo diventa nel legame che aiuta a stabilire con ciò che appartiene a quanto ci circonda. Qui, a contare, più che i fatti sono le impressioni sui fatti medesimi. Un sottile anatema contro chi ha la pretesa di capirli e di spiegarli agli altri, quasi che fossero sempre e comunque riconducibili ad una secca razionalità, ad una causalità che l’autore non vuole in alcun modo riconoscergli, è il punto di partenza, e di arrivo, della serie di quadri di vita che compongono il testo. Mille volte lontano da tentazioni spiritualiste, saldamente ancorato alla sua identità laica, tuttavia nelle sue pagine si incrocia spesso il rimando ad una sfera di inconoscibilità che non deve essere messa in discussione. Così come il cruccio persistente è quello di governare romanticismo e realismo senza essere travolto dall’uno o dall’altro.
Prende in tale modo forma un autoritratto attraverso interposte figure, femminili e maschili, come se il senso della propria identità derivasse inevitabilmente da quella consapevolezza che è una costruzione che passa attraverso il legame con il proprio corpo, la spinta passionale e pulsionale, la proiezione verso gli altri, la restituzione che quegli altri, per noi significativi, ci fanno di noi stessi, inducendoci a formularci dei quesiti e non solo a prescrivere condotte. La cifra unitaria delle note, dei tableaux vivants che si susseguono nel testo è, inoltre, la cognizione dell’imperio della vecchiaia. Che si intrufola un po’ ovunque, compagna tanto inconfondibile quanto necessaria nella maturazione di una forma di saggezza che fa dell’esperienza la capacità di offrire uno sguardo pacato e profondo verso un presente che diventa l’unico tempo ancora disponibile. Vittorio non ha paura se non di lasciare qualcosa di incompiuto alle sue spalle, nella sua esistenza a tratti quasi rocambolesca, senz’altro piena di incontri, parole, eventi e impressioni. Una vita di relazioni, per come è raccontata da questo libro, sospeso, nella sua forma letteraria, tra piena resa autobiografica e insieme di racconti a sé stanti. In quella che sembrerebbe essere altrimenti una trama tutta intimista Vittorio Dan Segre inserisce il “resto del mondo”. Così come l’ha conosciuto e così come in parte non è più, anche se noi ci illudiamo che possa essere ancora tale.
C’è il senso del cammino, del percorso, e del trascorre delle cose. Non darsene troppa cura ed evitare i rimpianti, in buona sostanza, come probabilmente avrebbe pensato lui stesso, nel momento in cui il mondo medesimo, invece, ci obbliga a intervenirvi. La coscienza di un liberale novecentesco a tutto tondo, estraneo a qualsiasi velleitarismo, rigorosamente ancorato all’oggettività delle cose, emerge così nelle pagine che, raccontandoci di una vita, raccolgono il senso di tante esistenze.
Anche per questo, in tutta probabilità, è stimato per quel rigore che non era mai autoritarismo ma sempre e solo autorevolezza. Tanto più in un’epoca dove invece è risorsa assai scarsa.

Claudio Vercelli

(1 ottobre 2014)