Pensare il radicalismo islamico

vercelliDunque si dà un problema, non solo formale, ovvero nominalistico, nella definizione dei movimenti radicali di radice musulmana. Più che domandarsi quanto questi siano effettivamente rappresentativi della volontà della popolazione nei luoghi in cui si trovano ad operare, fatto che rimane una variabile dipendente da molti elementi, non sempre computabili a priori, quello che si impone a noi come quesito è quanto possano essere considerati espressione, più o meno autentica, dell’islamicità, varcate le soglie del XXI secolo. Ovvero, se essi ne siano una forma verace (così dicono di sé), o se vadano considerati come qualcosa d’altro. In altre parole ancora, sono essi ciò che quattordici secoli e più di civilizzazione arabo-musulmana ci consegnano definitivamente, quindi una sorta di destino ineluttabile, uno sbocco obbligato, inscritto nel patrimonio costitutivo di quelle società, e della loro evoluzione, oppure costituiscono una variabile a sé, da considerare secondo criteri diversi, che tengano separato il discorso sulla religione da quello di stretto merito riguardo alle condotte politiche? Problema, quest’ultimo, assai difficile da affrontare se la premessa, più volte richiamata anche in queste righe, è che l’una e le altre vengono rivendicate come un tutt’uno dai protagonisti medesimi. Ma il modo in cui un soggetto storico si racconta non è la sua storia in quanto tale. L’autonarrazione va sempre distinta dalla valutazione sul suo concreto operato e sui costrutti ideologici che lo connotano. Lo sguardo dall’esterno non deve coincidere con quello dall’interno, altrimenti il fare storia, ma anche il raccontare la cronaca spicciola, rischiano di diventare semplice cassa di risonanza dei loro attori. Per meglio intenderci, se riteniamo che il modo in cui il cosiddetto «Stato islamico», presente in Siria e nell’Iraq, sia l’esito inevitabile delle trasformazioni in atto nel mondo musulmano, rischiamo di fare il gioco stesso dei tagliagola che si celano dietro questa sigla, offrendogli, nostro malgrado, una legittimazione non solo immeritata ma basata esclusivamente su quello che vogliono che si pensi di loro. È evidente che gli islamisti intervengono nel malessere diffuso che accompagna, non certo solo da oggi, quelle terre e chi vi abita. E che di tale stato di cose ne siano anche un prodotto. Ma è buona cosa fermarsi un attimo e raccogliere i pensieri dinanzi alla loro pretesa di rappresentare, in tutto e per tutto, l’evoluzione dell’Islam – dopo le sue presunte «corruzioni», derivanti dall’incontro problematico con la modernità secolarizzante. E cercare di capire meglio le cose, evitando i facili automatismi. Alla modernità laica e secolarizzante attribuiscono ogni possibile disastro, contrapponendovi la loro “comunità militante”, fatta di devoti ad una religiosità tanto politicizzata quanto asfissiante.. Il radicalismo islamico, come forma contemporanea di mobilitazione, nasce peraltro dai movimenti riformisti che, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, attraversarono il mondo arabo-musulmano nel suo insieme. Da quei semi, e dalla pianta che ne fiorì, per transiti successivi si è arrivati al pulviscolo turbinoso di gruppi, fazioni e organizzazioni così come le conosciamo oggi. Il riformismo si interrogava sul rapporto con le nuovi configurazioni che il mondo, non solo quello composito dell’Islam, andava sperimentando nell’età della tecnica, del consolidamento della seconda rivoluzione industriale e del colonialismo europeo. Riconoscendo l’impossibilità di chiudersi le porte alle spalle, in un falso sogno di autosufficienza, si poneva quindi il problema dell’adeguatezza (come, di riflesso, dell’inadeguatezza), delle società e delle culture autoctone alla sfida del tempo corrente. E da ciò formulava una proposta di riforma dell’Islam, inteso non come religione bensì in quanto vero e proprio sistema di relazioni sociali – alternativo a quello capitalista prima e comunista poi, in questo secondo caso dopo l’affermazione della Rivoluzione d’Ottobre e la sua diffusione come modello d’azione anche in Asia e in Africa -, che evitasse alle società locali di soccombere dinanzi alla preponderante presenza occidentale. Non solo militare ma anche economica e civile. La nozione di«imperialismo culturale», che sarebbe poi stata sostituita da quella più moraleggiante di «regime dell’empietà», trova progressivamente il suo spazio in tale dinamica storica. Posto per parte nostra il discorso in questi termini, il radicalismo, in quanto filiazione di tali processi, non implica in linea di principio un rifiuto totale della modernità bensì il diniego che essa possa dettare in maniera esclusiva le condizioni alle quali vivere il proprio presente. Si tratta per i fondamentalisti di islamizzarla in una sorta di inversione delle polarità. Da queste premesse, i tempi sono tuttavia ancora trascorsi, fino ad arrivare agli scenari odierni. L’evoluzione del radicalismo può essere letta, sul piano storico, attraverso la cartina di tornasole del movimento della Fratellanza musulmana, vero prototipo e pilota di un più ampio insieme di soggetti, di protagonisti e di condotte che si sarebbero succedute nel corso dei decenni, dal 1930 in avanti. La vicinanza con il potere, o comunque con i centri di potere, è un aspetto importante di questa storia. Raramente i movimenti radicali nascono per sola spinta dal basso, producendosi semmai nel contatto tra malessere derivante da ciò che essi chiamano «Fitna» e membri delle élite culturali e sociali, che raccolgono tale diffuso “grido di dolore”, facendosene interpreti. Storicamente la parola, il cui etimo rimanda a significati ampi, dalla «prova», difficile e sofferta, alla contrapposizione di petto, che può sfociare in una vera e propria guerra civile interna al mondo islamico, indica il conflitto sulla legittimazione delle linee di potere che portò, nel volgere di due secoli, alla spaccatura tra sunniti e sciiti. Ancora una volta tale tema di fondo, ossia di chi abbia il vero diritto al governo della sfera pubblica, ritorna come una sorta di tallone d’Achille. Basti pensare che la Fitna è una condizione di contesa persistente sulle linee di successione al potere, e su chi ad esse sia giustamente chiamato, nell’esercizio di una volontà che non deve essere quella popolare bensì esclusivamente divina. Il potere bene «informato», quello che si esercita con «equità» e «giustizia», non promana dalla collettività bensì dall’ultraterreno. In una inversione di ruoli, è ciò che sta sopra a legittimare quello che si pone sotto (e non viceversa). La Fitna, oggi, non è solo l’insieme delle perduranti contese interne al mondo musulmano ma la secca contrapposizione tra due civiltà, quella corrotta dell’Occidente (inteso come una sorta di categoria dello spirito) e la «Casa dell’Islam». Si proietta dentro quest’ultima – argomento strategico per gli islamisti odierni – laddove il primo finanzia e sostiene gli individui empi che governano illegittimamente i paesi musulmani, alimentando artificiose contrapposizioni, deviazioni e corruzioni sulla strada verso l’ottemperanza alla volontà divina. Il radicalismo islamista si pone quindi ossessivamente il problema del potere. I suoi esponenti contestano radicalmente i regimi vigenti poiché ne conoscono le articolazioni; a volte ne sono essi stessi parte integrante, ancorché insoddisfatta. Oppure colgono le opportunità che si dischiudono dinanzi alla cristallizzazione delle vecchie politiche, nel momento del loro cadere come delle foglie secche, come è avvenuto con gli esiti delle diverse «primavere arabe» dove, invece che l’potesi di nuove democrazie, è subentrato l’autunno delle vecchie oligarchie. Il radicalismo islamista, quindi, coniuga la critica, intollerante e apocalittica, della modernità al problema della trasformazione alla radice delle relazioni sociali. In questo senso ha una carica rivoluzionaria, nella misura in cui esplode, come una violenta spallata, in società al medesimo tempo intrinsecamente instabili, nei loro equilibri sociali ed economici, ma apparentemente immutabili sul piano delle configurazioni di potere. Ancora una volta, la natura politica del fondamentalismo a matrice religiosa viene così confermata, rafforzandosi grazie alla più assoluta mancanza di dialettica che sta alla base non della sua interna organizzazione ma di quella dei regimi di cui contesta la legittimità. La religione è quindi un vettore, un linguaggio condiviso, di comune uso, per più aspetti pretestuoso ma immediatamente capitalizzabile in termini di consenso, per manifestare quella domanda di politica che i movimenti raccolgono, organizzano e avanzano. Più che islamizzare la politica, quindi, avviene l’esatto opposto, ossia la politicizzazione della sfera della religione. Il caso iraniano, nel biennio 1977-1978, con la nascita dell’autonominatasi «Repubblica islamica», è un esempio significativo in tal senso. La qual cosa, per bene intendersi, non implica il coinvolgimento effettivo della collettività nell’ambito del processo di formazione delle decisioni. Come tutti i movimenti e le fazioni che vantano (o millantano) una vocazione rivoluzionaria, dicendo di praticarla nell’interesse esclusivo della comunità di riferimento, l’islamismo si guarda bene dal chiamare poi concretamente in causa quest’ultima in quei percorsi che vadano oltre il riconoscimento dell’esclusività della sua rappresentanza. La passivizzazione della società è infatti un altro aspetto importante nell’agire radicale, che assume su se stesso il ruolo di decisore totale. L’esatto opposto della prospettiva democratica che, per esistere, necessita invece della presenza attiva e consapevole di coloro che considera «cittadini». La religiosità, da tale punto di vista, torna allora ad essere di nuovo un elemento quietistico, ossia lo strumento con il quale definire, legittimare e imporre la subalternità ai credenti, dopo averli in un primo tempo mobilitati nel ribaltamento degli equilibri esistenti. Ma è una religione sottratta ai suoi tutori tradizionali, chierici di ogni genere (intellettuali, clero, politici), defenestrati adesso dalla capacità che il movimento ha sprigionato di farsi soggetto unico, totalizzante, della politica medesima. Anche qui aspetti significativi dell’esperienza dei partiti rivoluzionari di potere, a partire dalla propensione alle soluzioni oligarchiche, nel nome del “bene comune”, si ripetono nel sentire e nell’agire islamista. Che, in tal senso, a modo suo è “moderno”, ossia congruente ai meccanismi di selezione e riproduzione delle élite laddove non vi sia alcuna libera intercambiabilità. Il punto che va sottolineato, in questo groviglio di elementi e considerazioni, è che l’esito dei processi di globalizzazione è spesso in sintonia con questo tipo di soluzione. Non siamo in presenza di deviazioni da una strada altrimenti spianata verso la democratizzazione di paesi che, fino ad oggi, non avevano conosciuto tale possibilità, bensì alla riproduzione della politica in forma di circuito ristretto, ascritto ad un gruppo circoscritto, autoselezionatosi. Cosa cambia, allora, rispetto a prima? Senz’altro mutano i detentori materiali del potere. Ma muta anche la forma di questo potere che, nel caso dell’islamismo, vuole avere poco o nulla a che fare con l’ormai superato concetto di sovranità nazionale, rinviando semmai ad appartenenze comunitarie e a fedeltà tribali che tornano così in auge.
 
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Claudio Vercelli

(5 ottobre 2014)