Casa Pound-Lega Nord, nuove prove di dialogo
L’avanzata dell’Isis continua inesorabile: ieri Arin Merka, una giovane donna curda, si è fatta esplodere nei pressi di un fortino nemico a Kobane. Nella cronaca di Lorenzo Cremonesi del Corriere della Sera, vengono riportate le parole dei compagni di battaglia di Arin: “Merkan non aveva la cintura esplosiva dei fanatici islamici. Lei è una donna soldato. Ha usato le bombe a mano che aveva nel tascapane. Sappiamo che alcuni jihadisti sono morti con lei, non è chiaro però quanti”. Viene delineato poi il ruolo delle donne nella lotta anti-Isis: “In tutto i miliziani curdi in Siria sono circa 40.000 (con loro ci sono anche volontari yazidi e cristiani), circa un terzo donne: combattenti a tutti gli effetti. Negli ultimi giorni il ruolo di queste ultime è diventato sempre più visibile. Sembra che la loro presenza sia di grande fastidio per i jihadisti. Due settimane fa si sarebbero sentiti umiliati dal fatto che proprio un drappello di donne curde aveva avuto la meglio in uno scontro a fuoco centro le loro pattuglie avanzate”. Proprio questo sarebbe il motivo che si cela dietro la scelta di decapitare tre prigioniere la scorsa settimana: “Le combattenti curde sanno ormai che, se catturate, non avranno scampo”.
Critiche le parole del politologo Edward Luttwak, intervistato oggi dal Messaggero, nei confronti del ruolo USA nel conflitto: “I raid arei sono efficaci contro una forza militare compatta e visibile, ma questo non è il caso dell’ Isis, che più che un esercito è un movimento. Fa muovere i propri militanti nascosti tra le carovane dei rifugiati, e che evita di incolonnare i suoi carri armati nel deserto. Le bandiere nere dello Stato Islamico sono invisibili sul territorio, e spuntano invece a Baghdad e a Mosul dove non possono essere raggiunte dalle bombe, che farebbero strage tra i civili”. Cosa fare dunque? la risposta di Luttwak è dura: “La cosa migliore sarebbe andarcene e occuparci dei fatti nostri, e permettere che l’Isis si sviluppi contro l’Iran che è nostro nemico, e trovare un equilibrio naturale nella regione senza la presenza di forze americane. Oppure lasciare le cose come stanno. In fondo quello americano è un intervento di facciata e non altererà lo sviluppo naturale della situazione”. Prosegue inoltre il dibattito sulla pubblicazione dei video che mostrano le cruente decapitazioni dei fanatici dell’Isis, da parte dei media: sul Giornale si legge che l’Indipendent on Sunday ha deciso di pubblicare uno sfondo nero invece delle immagini della vittima Alan Hemming, titolando: “Qui ci sono notizie, non la propaganda”. Si esprime anche il direttore del tg5 Clemente Mimun: “Non sarà trasmesso più un solo fotogramma diffuso dallo Stato islamico”. A Repubblica John Micklethwait, direttore dell’Economist dichiara: “Dubito che dovremmo approvare una legge che proibisce la pubblicazione di proclami di organizzazioni come l’Is. Sarebbe l’equivalente di una censura. Spetta piuttosto a ogni singolo giornale decidere cosa pubblicare e cosa no, cercando di distinguere fra ciò che costituisce una notizia di cui è necessario informare il pubblico e quello che invece è solo propaganda”.
Intanto nuove decapitazioni ispirate al metodo dell’Isis si replicano sul Sinai. Il Tempo riporta l’esistenza di un video, rimosso dalla rete, che mostra tre uomini uccisi con l’accusa di essere informatori del Mossad: “Continua la messe di spie degli ebrei” annuncia un portavoce del gruppo del gruppo islamista Ansar Beit al-Maqdis. Una scena drammatica, simile a quella dello scorso 28 agosto nella quale venivano decapitate quattro presunte spie.
“Perché Israele teme gli effetti del riconoscimento dello Stato palestinese?”, con questa domanda si apre il focus di Maurizio Molinari, firma de La Stampa, dopo la dichiarazione dell’intenzione del premier svedese Steven Lovfen di riconoscere la Palestina. Molinari spiega: “L’adesione della Svezia conta di più delle precedenti, trattandosi di un Paese dell’Ue ovvero il maggior partner commerciale dello Stato ebraico”. Le parole di Benjamin Netanyahu sulla questione sono inequivocabili: “I passi unilaterali sono contrari agli accordi esistenti, non avvicinano la pace ma la allontanano”.
Il Secolo XIX stila il drammatico bilancio dei suicidi tra i soldati israeliani. Da quanto riporta l’associazione Breaking the silence, il numero di vittime dello stress post traumatico che si tolgono la vita sarebbe più alto di quanto si crede: “Una ventina tra le reclute della Brigata Givati”. Il padre di Gidi Kinda, un ragazzo di 24 anni morto suicida, ha dichiarato: “In mio figlio non credo ci fosse convinzione ideologica. Era ovviamente un militare di leva, di quelli che si rendono conto solo sul campo che la guerra è soprattutto dolore, sangue e paura. Era partito già con l’animo dello sconfitto e sperava solo che tutto andasse bene”.
Possibili nuovi legami tra Lega Nord e Casa Pound, forse in vista del raduno anti-immigrazione che si terrà 18 ottobre a Milano. A far visita agli esponenti di Casa Pound, nella sede romana in via Napoleone III, Matteo Salvini che a chi lo interroga, come scrive Rodolfo Sala su la Repubblica, replica: “E allora? Non sono mica degli appestati, e poi la Lega non fa la schizzinosa: dialoga con tutti”.
“Fatemi uscire, qui è un lager nazista” questo l’appello di Fatì, come titola la Gazzetta di Bari. Il detenuto tunisino, da due settimane ha infatti iniziato lo sciopero della fame dopo essere stato trasferito da Roma al Centro di identificazione ed espulsione di Bari. “Qui le condizioni di vita sono disumane” ha continuato.
Rachel Silvera twitter @rsilveramoked
(6 ottobre 2014)