…pluralismo
Cosa abbiamo da offrire al difficile mondo che ci troviamo a vivere? Intendo il verbo “abbiamo” al presente indicativo, con soggetto una collettività ebraica disunita e multiforme. Io penso che si debba partire proprio da questa disomogeneità, una caratteristica che nel linguaggio sociopolitico trova espressione nei lemmi ‘pluralismo’, ‘pluralità’. Penso cioè che il contributo più attuale che l’ebraismo può portare – nell’intento di migliorare un mondo carico di conflitti e di tensioni – sia profondamente radicato in questa sua caratteristica storica, che è oggi un segno di novità e un’autentica risorsa. A ben guardare, e al netto delle profonde ragioni economiche che presiedono allo svilupparsi di inediti conflitti spesso di difficile interpretazione, la natura della gran parte delle tensioni che ci troviamo oggi a vivere trae origine da un rafforzarsi delle retoriche comunitariste ed esclusiviste. Focolai di violenza si nutrono di politiche che vedono come indubbio protagonista il nuovo/vecchio Moloch della nazionalità e delle etnie. La lezione di Ernest Renan, che quasi 150 anni fa provava a definire il concetto di nazione (pensando quasi solo all’Europa), oggi si va estendendo ad aree che in maniera ingenua pensavamo immunizzate dalla Storia. Due guerre mondiali, decine di milioni di morti, il tramonto ormai visibile del modello occidentale e della sua centralità, sembravano certificare una inattualità delle pulsioni nazionali che nella maggior parte dei casi fanno da foglia di fico a ben altre dinamiche. Eppure è un fatto: dall’Ucraina al Kurdistan, dalla Scozia alla Cirenaica è tutto un fiorire di nazioni che spingono per ottenere autonomia e/o indipendenza. La diaspora ebraica vive questa dinamica su un doppio registro: una millenaria esperienza di vita costruita sul paradigma dell’assenza di uno Stato politico (vagheggiando una futura/presente redenzione messianica, totalmente non-politica) si pone in forma dialettica con un presente in cui si godono gli indubbi benefici derivanti dall’esistenza dello Stato d’Israele. Benefici in termini di acculturazione (viviamo una bella e vivace rinascita della lingua ebraica), di conservazione (i tesori della cultura e della tradizione ebraica sono lì preservati e valorizzati), di idealità (nuove forme di vita ebraica sorgono e si articolano in terra d’Israele), di sicurezza (la tradizionale fragilità delle strutture diasporiche gode di una protezione diplomatica oggettiva e sconosciuta nella storia). E si potrebbe aggiungere tanto, tanto di più, ma non è qui la sede. È qui invece il caso di riflettere sul fatto che l’esperienza ebraica – sia nella diaspora, sia in Israele – è caratterizzata storicamente dalla convivenza (magari conflittuale) di approcci diversi. Lo stesso movimento nazionalista ebraico – il sionismo – è sempre stato estraneo alla monocultura politica. Il pluralismo di sentimenti e di idee, quindi: un valore radicato profondamente nell’essenza di una tradizione come quella talmudica, dove il dibattito e la dialettica costituiscono il nucleo stesso di un metodo che ha permesso alla civiltà ebraica di attraversare i millenni. È questo, credo, il contributo profondo che possiamo offrire a questi tempi travagliati, diffidando di chi propone pensieri unici e mettendo in guardia i gruppi che – nel nome di una ipotetica omogeneità nazionale, etnica o di pensiero – attivano politiche di esclusione, di persecuzione e di conflitto.
Gadi Luzzatto Voghera, storico
(24 ottobre 2014)