Pensare il radicalismo islamico/6
Il nesso tra purificazione e combattimento è una delle radici più importanti della dottrina del radicalismo islamista. Che è, come già si è avuto modo di notare, dottrina di mobilitazione, di militanza, di partecipazione e, quindi, di sacrificio, qualora ciò occorra. La morigeratezza nei costumi imposta alla collettività civile, la coazione alla «modestia», se viene presentata come vincolo obbligato in ottemperanza alla volontà di Allah risponde, nei fatti, all’affermazione della supremazia civile e culturale del movimento politico. Il controllo del corpo (altrui) è l’indice della costruzione di una egemonia sulla vita quotidiana non solo di chi è parte attiva ai combattimenti ma anche e soprattutto di chi ne è subalterno, vivendo i tempi del fondamentalismo al potere non come il prodotto della propria scelta bensì come il risultato dell’evoluzione di forze collettive che esulano dalla sua capacità di incidere sul corso degli eventi. La sharia, il complesso delle norme conosciute come Legge islamica, si lega così all’applicazione del jihad come comandamento occulto, ossia non esplicitato nei cinque pilastri dell’Islam. Se la religione dell’Islam consiste nella fede (al-iman) e nella pratica (al-din) la traduzione di entrambe in atti concreti, infatti, impone che ogni autentico fedeli si adoperi per l’ottemperanza a cinque precetti inderogabili: la professione di fede, shahada, la quale implica l’accettazione dell’unicità di Allah attraverso la testimonianza verbale (nella quale si dichiara la proprio adesione al monoteismo e, nel medesimo tempo, si riconosce la missione profetica di Maometto), spesso ripetuta nelle preghiere di ogni dì; l’assolvimento della preghiera rituale, salat, che diventano cinque in una giornata, tutte recitate in arabo e a memoria; la corresponsione di una parte della propria ricchezza ai bisognosi e ai meno facoltosi, la zakat, che se molti traducono come «elemosina» in realtà è, o costituirebbe, un vero atto di redistribuzione delle risorse tra la collettività musulmana, nel nome della sua coesione sociale e morale; il digiuno nel mese di Ramadan, sawm, che implica l’astensione non solo dall’alimentarsi ma da tutta una serie di pratique quotidiane, nel nome della disciplina, dell’autocontrollo e della purificazione interiore; lo hajj, il pellegrinaggio alla Mecca, da farsi nel mese del calendario lunare di Dhu l-Hijja, almeno una volta nell’esistenza del fedele. Più il generale, il termine jihad, all’interno di questo corpus di disposizioni normative e di ortoprassi, è comunque evocativo di «sforzo», ossia di qualcosa che demanda all’impegno persistente verso l’adempimento integrale dei propri obblighi. La sua concezione è dinamica poiché dinamico è il quadro di riferimento in cui la religione musulmana si inserisce. Le dottrine concordano sulla legittimità di un jihad difensivo laddove esso consista nella difesa militare della comunità islamica quand’essa sia assediata oppure offesa dal nemico. Così in epoca coloniale, quando le popolazioni musulmane insorsero contro la presenza degli occupanti. Per più aspetti questa condotta può, a rigore di logica e di diritto internazionale, essere ricondotta al diritto di resistenza armata contro l’occupazione. Così nel caso dell’Afghanistan del 1979, invaso dall’Unione Sovietica, quando un’argomentata fatwa, ossia il pronunciamento autorevole di un giureconsulto, a ciò legittimato e quindi autorizzato, emessa da Abd Allah Yusuf al-Azzam (destinato a condizionare il pensiero e le scelte di militanti del radicalismo islamico come Ayman al-Zawahiri e Osama bin Laden), dichiarava necessaria l’azione contro i kuffar, i miscredenti. In terra afghana ma anche, ed è quest’ultimo un aspetto non secondario, contro Israele. L’asse tra la lotta contro le singole «occupazioni» e quella della Palestina storica, quest’ultima intesa come la madre di tutte le battaglie, è la saldatura ideologica più preziosa per giustificare i gesti del presente. In questo quadro si posiziona infatti il jihad offensivo, laddove esso indica non più la difesa di qualcosa di già esistente bensì l’aggressione e la conquista in chiave espansiva. Anche qui dottrine e, soprattutto, interpretazioni divergono. L’Islam sunnita lo può contemplare ma non come obbligo per il singolo fedele (fard’ayn) bensì come vincolo religioso per l’intera comunità (fard kifaya). In realtà, il vero passaggio critico è costituito non dalla dimensione dottrinale bensì dalla legittimità della pronuncia. Qui si innerva, ancora una volta, l’azione del radicalismo islamico, alla ricerca continua di uno spazio di autolegittimazione. Poiché in società dove l’elemento religioso è immanente alla sfera pubblica ma non esiste una chiara linea di trasmissione gerarchica, chi riesce a ricavarsi un ruolo in tal senso è destinato ad esercitare un potere rilevante. A causa della mancanza di un’organizzazione ecclesiastica all’interno della vasta maggioranza dei musulmani, qualsiasi aderente potrebbe, quanto meno in linea di principio, autoproclamarsi esperto in materia di religione e dichiarare un jihad difensivo per mezzo di un pronunciamento. Il cui riconoscimento di validità, e gli impegni che da esso così deriverebbero, rimangono comunque a discrezione di coloro che ricevono il messaggio. La scomparsa del Califfato come istituzione unitaria nel 1924 (titolo che gli Ottomani detenevano dal 1517) ha accentuato, sul piano politico, tale condizione. Gli Stati nazionali, che in via teorica sarebbero gli unici a potere vantare una funzione di questo genere, sono considerati dall’islamismo radicale come entità destituite di legittimazione, ossia non rappresentative dell’Islam. In tale vuoto non di potere-potenza ma di riconoscimento del potere-autorità, i movimenti militanti si sono ricavati una nicchia importante, quella che gli deriva dall’essersi assunti la status di detentori di un’autorità di fatto. E questa autorità ruota intorno alla pronuncia del jihad e alla sua traduzione in atti concreti, ovvero militanti. Concretamente, la teologia del martirio ha trovato campo fertile laddove ha rappresentato un sicuro corrispettivo ideologico all’agire politico e, in immediato riflesso, della legittimazione di quei poteri che nell’azione permanente trovano il loro fondamento. Lo sciismo rivoluzionario (a fondamento del quale c’è la tradizione del sacrificio del terzo imam a Kerbala), rompendo con la tradizione quietista, nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso inizia a presentarsi pubblicamente come religione della lotta contro l’ingiustizia. Ciò facendo incentiva la mobilitazione che, a sua volta, porta con sé l’idea che la giustizia sia il prodotto non dell’attesa bensì dello scontro. In questa dinamica, ciò che conta non è mai l’uno, il singolo, il pio credente ma, ancora una volta, secondo quella che diventa una costante nella logica radicale, la comunità. Il sacrificio individuale verrà compensato non solo nell’ultraterreno musulmano ma dal successo in questo mondo del gruppo per il quale si dona se stessi, ossia dal raggiungimento dei suoi obiettivi. La soggettività del fedele si invera nell’aderenza alla prassi dell’organizzazione, che detta i valori fondamentali e il modo di trasfonderli in prassi. La dialettica tra individualità e comunità sta quindi alla base della valorizzazione del martirio. E diventa una delle chiavi fondamentali nel successo del regime khomeinista, prima con la rivoluzione contro lo shah e poi nella lotta, tra il 1980 e il 1988, contro l’Iraq di Saddam Hussein. Ad imprimere una svolta in tal senso è la nascita dell’Organizzazione per la mobilitazione dei diseredati, la Bassidjé Mostazafin, costola delle Guardie rivoluzionarie sciite. Si tratta di un movimento connotato sia dal punto di vista sociale (raccogliendo perlopiù elementi provenienti dagli strati più modesti della società iraniana) sia generazionale (con una forte prevalenza degli adolescenti). È lo specchio della potente, tumultuosa e violenta politicizzazione che tra il 1975 e i primi anni Ottanta ha travolto l’intera società. Ad una generazione di giovanissimi si chiede di diventare protagonisti della scena collettiva, immolandosi contro le truppe irachene. Ed il risultato è irresistibile, rompendo gli argini del tradizionalismo musulmano, svellendo le difese delle famiglie – che si vedono sottrarre i figli, volenterosi miliziani della nuova formazione da combattimento -, capovolgendo le gerarchie sociali consolidate a favore di un potere che si presenta come rivoluzione in cammino. Dietro la mistica della lotta (e della morte), della ricerca della purezza attraverso il sacrificio della propria persona, del «soldato politico», del giovane come autentico detentore di un sapere esclusivo, quello che gli deriva dal non essere stato contaminato dal vecchio regime, ma anche della «comunità del fronte», dell’unione tra coloro che hanno vissuto le medesime esperienze, tornano i temi dell’avanguardismo, dell’arditismo e del combattimento come fine in sé che in Europa già i fascismi avevano fatto propri con profitto. All’esercito si sostituisce in tale modo la milizia, alla guerra la militanza armata, allo scontro il sacrificio, alle istituzioni cristallizzate il movimento giovanile. Mentre l’esercito ragiona di strategie i basidji si immolano. Questa meccanica si riproduce da subito anche nel conflitto libanese del 1982, quando dalla valle della Beka’a la presenza militante sciita si espande verso il sud del paese. Hezbollah, il «partito di Dio», destinato a egemonizzare il Libano meridionale, si struttura in quei frangenti, diventando poi un attore politico di primaria grandezza. Sarà proprio l’anno successivo che gli shahid locali attaccheranno, con una serie di attentati suicidi, i presidi americani e francesi, oltre a quelli dei propri avversari interni. Negli anni seguenti il medesimo fenomeno inizia a proporsi anche tra i sunniti. L’epicentro è la lotta contro l’«entità sionista» condotta da gruppi come Hamas e Jihad islamica, a Gaza come in Cisgiordania. Una lunga stagione di uomini-bomba, che si fanno esplodere nelle città israeliane, diventa il suggello del fatto che la lotta politica non è più quella voluta dei vecchi gruppi raccoltisi sotto l’ombrello dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Tanto più dal momento che essa sta conducendo un lungo e complesso negoziato con Gerusalemme. Di fatto, con l’esplosione della seconda intifada, a partire dal 2000, molto più violenta e militarizzata di quella precedente, conclusasi nel 1993, il ruolo degli uomini-bomba diventa rilevante nella conduzione delle diverse operazioni terroristiche. Significativa è l’adozione di una forma di comunicazione delle proprie ultime volontà basata sul testamento mediatico. Ogni candidato al «sacrificio» registra un video dove spiega le motivazioni del suo gesto a venire, attraverso la recitazioni di brani del Corano e il lancio di invettive, che viene poi diffuso non solo all’interno della comunità palestinese ma anche nel circuito dell’informazione occidentale. Ancora una volta il nesso tra apparente arcaicità del comportamento (il morire uccidendo barbaramente negli innocenti) e la modernità dei mezzi con i quali lo si veicola e lo si enfatizza, conferma la saldatura che nel radicalismo islamista si dà tra ricorso alla violenza e sua diffusione mediatica in funzione promozionale dell’organizzazione militante. Quello che il radicalismo ha pienamente inteso è che in situazioni sociali e politiche immobili, dove i gruppi di interesse sono, a loro volta, inamovibili e una parte consistente della popolazione, soprattutto se giovane, vive un’insopportabile marginalità, lo sbocco al comune senso d’impotenza è il ricorso alla forza. Improponibile per il singolo, destinato nel qual caso a rimanere isolato e a pagarne il prezzo. Ma del tutto plausibile e lecito, agli occhi di molti, se perpetuato attraverso la corresponsabilizzazione, il senso di identità e la condivisione che l’appartenenza ad una organizzazione politica, che si presenta come contropotere totale, offre a chi ne è parte. A tale impostazione si coniuga una visione apocalittica dello scontro politico, letto con categorie teologiche e dicotomiche: si tratta del conflitto tra il bene e il male, laddove nessuno può tirarsi fuori, dichiarando una propria innocenza a prescindere. Non esistono individui innocenti ma solo soggetti corrotti, destinati ad essere estinti, e fedeli alla ricerca della purificazione attraverso l’impegno quotidiano. Anche per questo il radicalismo si rivolge non solo in opposizione agli «empi» e gli «infedeli», quelli che non hanno abbracciato il verbo del profeta, ma anche e soprattutto contro coloro che considera «apostati», traditori della causa islamica, che fingono di difendere e promuovere quando invece si adopererebbero concretamente contro di essa. Ne consegue che il regime politico-militare più congruo ad una parte del radicalismo islamico sia la guerra civile permanente, dove tutta la collettività è costantemente sottoposta a continui movimenti tellurici, a persistenti richiami alla militanza, ad una sorta di plebiscito continuo. In tale stato di “abituale emergenza”, dove il diritto sgorga dalla prassi rivoluzionaria, essendo quindi il prodotto dei rapporti di forza stabiliti sul campo; dove ad ognuno, indipendentemente dalla sua identità personale e dal suo ruolo sociale, è chiesto di manifestare con continuità la sua fedeltà ai principi del credo vigente; dove le élite dirigenti sono quelle del movimento, sostituendosi alla successione legale prevista invece dagli ordinamenti statali, le quali fondano su base carismatica il proprio potere, l’arbitrio si fa legge, senza che ciò comporti necessariamente il venire meno della necessità dell’esistenza delle norme e del loro rispetto. Che, semmai, ne escono rafforzate, per la puntigliosità con la quale queste, in quanto prodotto di una “morale rivoluzionaria”, vengono definite e applicate; ma al di fuori di qualsiasi nesso con quella dimensione pluralista che è, invece, alla base dei poteri democratici. Il fondamentalismo religioso e ideologico, in altre parole, del pari al suo corrispettivo occidentale, il populismo, concorre all’estinzione di quella ricchezza sociale, culturale, morale e civile che è il vero, autentico prodotto dell’evoluzione dell’etica collettiva.
(6/segue)
Claudio Vercelli