Periscopio – Sionismo religioso

lucreziIn un reportage da Gerusalemme, pubblicato su la Repubblica di lunedì scorso, 3 novembre, Gad Lerner descrive la situazione critica in cui versa la Città Santa, analizzando le ragioni delle presenti tensioni e dell’incombente rischio di una terza Intifada. Al di là di qualche fuggevole riferimento all’estremismo islamista, Lerner attribuisce la responsabilità di quello che sta accadendo alla deriva oltranzista dei governanti israeliani, e, in particolare, al fatto che “il sionismo religioso” avrebbe assunto “l’egemonia culturale dentro a un establishment israeliano chiamato a misurarsi con le nuove forme del jihadismo”. Non intendiamo commentare, parola per parola, tutto ciò che scrive l’articolista. La mia lettura degli avvenimenti è completamente diversa, ma ciò non ha importanza, il mondo è bello perché è vario. Leggo sempre con interesse chi la pensa diversamente da me, e non si può dubitare che Lerner sia persona intelligente, onesta e documentata. Mi chiedo, però, su cosa si basi la sua diffidenza verso l’espressione “sionismo religioso”, che farebbe tanti danni. Forse è uno dei due termini a generare allarme? È la parola sionismo che non piace? O la parola religione?
Personalmente, non sono religioso, almeno non nel senso tradizionale, e nessuno più di me è convinto che le religioni, tutte, nella storia dell’umanità abbiano fatto incalcolabili danni, e che in tute le religioni, compresa quella mosaica, si annidi sempre il rischio del settarismo e del fanatismo. So anche, però, che senza la religione ebraica non esisterebbe l’ebraismo ‘tout court’, e che la stragrande maggioranza degli uomini di fede che, attraverso i secoli, hanno preservato e trasmesso il messaggio delle Scritture lo hanno fatto distillando da esse significati di pace – quella vera -, fratellanza, libertà, armonia col creato.
O forse, se le parole sionismo e religione, singolarmente intese, non sono cattive, ad essere pericoloso sarebbe il loro accoppiamento? E perché mai? Il sionismo sarebbe incompatibile con la religione? Rav Cook non era sionista? e non era religioso? o era forse un violento, lui che predicava il vegetarianesimo, affinché gli uomini non rechino sofferenza a nessuna creatura vivente?
Lerner descrive una scena a cui ha assistito sotto al Muro del Pianto, che lo ha colpito: “faceva una certa impressione vedere i soldati col mitra a tracolla abbracciarsi in cerchio e cantare e danzare insieme ai rabbini ortodossi: una volta soldati e rabbini erano due mondi non comunicanti fra loro, oggi il sionismo religioso pervade anche l’esercito e assegna alla guerra sinistre virtù teologiche”. Se fossi stato presente, anch’io mi sarei certamente soffermato a guardare la scena, e anch’io ne sarei rimasto colpito. Ma in un modo molto diverso, direi opposto, rispetto a Lerner.
Il fatto che dei giovani militari abbiano sfogato la tensione derivante dalla loro pesante responsabilità condividendo un momento di spensieratezza con dei religiosi mi sarebbe sembrato una cosa bella e commovente, così come il fatto che dei rabbini, seri e compassati, abbiano voluto scambiare uno spontaneo gesto di gioia con dei ragazzi in uniforme.
È abbastanza vero che “una volta soldati e rabbini erano due mondi non comunicanti fra loro”, ma ciascuno di questi due mondi ha sempre capito benissimo, e rispettato profondamente, qual era la funzione assegnata all’altro. Se non ci fossero stati i rabbini, nei secoli, oggi non ci sarebbe Israele, né i suoi soldati – e capiamo bene che ciò non sarebbe, per molti, una grande mancanza -, e senza soldati, oggi, i rabbini ci sarebbero a New York e a Roma, ma certamente non in Israele. E se questi due mondi oggi cominciano a parlarsi, e magari anche, qualche volta, a ballare insieme, ciò dovrebbe solo fare piacere. Per Lerner, invece, è il segno inquietante dell’avanzata del temibile “sionismo religioso”, che “assegna alla guerra sinistre virtù teologiche”. Sarà. Non credo che la guerra abbia mai delle virtù, men che meno teologiche. So solo che, a volte, i soldati sono chiamati a difendere il loro Paese. Questo hanno fatto, da ultimo, i 64 militari caduti nella guerra di Gaza. Niente “virtù teologiche”. Semplicemente, hanno difeso il loro Paese.

Francesco Lucrezi, storico

(5 novembre 2014)