Periscopio – Napoli, 150 anni

lucreziDavvero un evento importante e significativo è l’inaugurazione, avvenuta stamattina presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, della mostra – organizzata da Giancarlo Lacerenza e patrocinata, oltre che dalla stessa Biblioteca, anche dal ministero dei Beni Culturali, la Regione Campania, l’UCEI, l’Archivio di Stato, la Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia, il Centro di Studi Ebraici dell’Università “l’Orientale” e il Comitato per i 150 anni – per il centocinquantesimo anniversario della fondazione della Comunità Ebraica di Napoli (l’unica, com’è noto, nell’intera penisola, a sud di Roma).
La rilevanza della piccola, vivace Comunità partenopea – con il suo passato travagliato e doloroso (fatto di antichissimi insediamenti, espulsioni, ritorni, mille peregrinazioni), il ricco patrimonio umano e culturale del presente, i molti progetti per il futuro -, nel generale quadro dell’ebraismo italiano, è ben nota, e illustrarla richiederebbe comunque uno spazio ben più ampio delle poche righe di questo breve intervento.
Vorremmo limitarci, pertanto, a fare un paio di osservazioni legate al particolare rapporto intercorrente tra tale istituzione (e ciò che essa significa, col suo peculiare patrimonio di esperienze e memorie) e la complessiva realtà di quella capitale del Mezzogiorno che (con le sue intrinseche, controverse caratteristiche), fin dall’Unità d’Italia, la ospita. Osservazioni sintetizzabili essenzialmente nell’idea che alla Comunità Ebraica la città di Napoli debba, innanzitutto, un sentimento di gratitudine, al di là di ogni suo specifico merito o contributo, unicamente per il semplice fatto di esistere, contribuendo, con ciò stesso, ad arginare quella che, secondo me, è la principale palla al piede della metropoli, ossia la retorica. Credo, infatti, che, tra i tanti ostacoli che, da sempre, si frappongono a una vera maturazione civile della città, e al superamento dei suoi secolari problemi, ci sia innanzitutto una forma di attaccamento morboso e ‘paralizzante’ a tutto un variegato patrimonio di tradizione popolare che, pur prezioso e ammirevole, viene costantemente presentato e vissuto come un eterno presente, come un passato che non passa, né mai passerà.
Se, in ogni città del mondo, l’attaccamento e la consapevolezza delle proprie radici rappresenta certamente un fattore di forza identitaria e, per ciò stesso, di propulsione verso un futuro di progresso e di evoluzione culturale, il culto retorico della ‘napoletanità’ ha spesso rappresentato, e rappresenta, una sorta di cappa di piombo sulle energie cittadine, condannate a esprimersi in un recinto di stereotipi e luoghi comuni svettanti come colonne eterne e incrollabili. Tutto, della tradizione popolare napoletana, viene continuamente ripresentato come perennemente attuale, senza il filtro di uno sguardo storico, di una visione diacronica, attraverso le trite e sempre uguali affermazioni di “amore-odio”, l’infinita reiterazione dell’immagine del “paradiso abitato da diavoli”, in una forma di religiosità che non tollera defezioni e tradimenti, e in nome della quale perfino gli aspetti più deleteri della subcultura cittadina (come la superstiziosità popolare, l’ignoranza, il familismo, il tifo calcistico esagitato, la furbizia, l’insofferenza alle regole e alla legalità ecc.), vengono difesi come ‘valori’ identitari. Lo sarebbe perfino, per esempio, la stessa ‘guapparia’, “intesa come orgoglio”, secondo le parole pronunciate, qualche anno fa, in occasione delle esequie di un noto cantante, dal Primo Cittadino di allora. E abbondano, anche negli ambienti acculturati, sui mezzi di comunicazione e nei Palazzi delle Istituzioni, le manifestazioni di una sorta di ‘spirito di corpo’ che, sempre in nome della difesa globale della ‘napoletanità’, fa da eterno ostacolo a ogni serio tentativo di autocritica e di reale crescita civile.
Su tali premesse, Napoli avrebbe bisogno soprattutto di una capacità di sguardo storico (che faccia comprendere che grandi opere e grandi nomi del teatro, della letteratura, della musica, restano grandi, ma devono essere superati), e di senso della differenza (che faccia capire come gli ‘altri’ non siano solo fuori dalle mura cittadine, ma anche all’interno di esse, e non solo come immigrati o visitatori). Perciò, anche solo come testimonianza vivente di una storia millenaria (maturata in luoghi diversi e lontani da Napoli), e portatrice dell’‘invisibile differenza’ dell’ebraismo, la piccola, nobile Comunità di Cappella Vecchia rende un grande beneficio al capoluogo partenopeo, che, con essa, vede piantato, nel suo cuore, un prezioso fiore di storia e di differenza.

Francesco Lucrezi, storico

(12 novembre 2014)