…pogrom
Nel 1903, quando gli ebrei di Kishinev vennero colpiti dall’orrendo pogrom favorito dalla polizia zarista, il poeta Chaiyym Nachman Bialik (1873-1934) visitò le strade e le case ancora grondanti di sangue e scrisse di getto il suo poema yiddish “In Shchite-Stot”, reso in ebraico in versione parzialmente differente con “Be-‘Ir ha-haregah” (“Nella Città del Massacro”, ed. italiana Genova, Melangolo 1992: è chiaro a tutti che la parola “Shchite” utilizzata in yiddish è più di massacro, indica lo sgozzamento di un animale). Gli storici assegnano alle parole dolorose e accusatrici di Bialik la funzione di scintilla che diede luogo a due importanti cambiamenti nella storia ebraica del ‘900: l’organizzazione per la prima volta di squadre di autodifesa e la pianificazione di quel massiccio movimento migratorio oggi noto come ‘seconda ‘Aliyàh’, indirizzato verso Eretz Israel. “Ti muovi, corri t’inciampi su miseri resti / …libri sacri, seta e raso / …scialli di preghiera, filatteri, pergamene, frammenti di Torah”. La descrizione del massacro è molto dura (più dura nella versione yiddish), carica di particolari brutali e crudi. Alla fine il poeta si permette una valutazione etica verso gli ebrei sopravvissuti che non reagirono: “Scappi? Vuoi sfuggire la luce e il sole?”. “Stravolto, disperatamente stravolto ti / rannicchi in una soffitta / e rimani lì solo nell’oscurità …E dopo aver visto di nascosto e in silenzio / non si cavarono gli occhi / non si strapparono i capelli, non / impazzirono…”. Il 18 novembre 2014 a Gerusalemme è stato compiuta – mi pare – una strage altrettanto efferata, che avrà conseguenze importanti sulla storia ebraica futura. Con qualche variante: i governanti degli ebrei eredi di quella seconda ‘Aliyah hanno assunto come idolo l’autodifesa in senso fisico, militare, assegnando all’efficienza strategica e alla ritorsione immediata un ruolo che oggi in quel luogo non è più sufficiente. Rannicchiarsi nella soffitta e rimanere da soli nell’oscurità non è più possibile, e ancora una volta le parole del vecchio Bialik dovrebbero far riflettere. Erigere muri e barriere, isolarsi, non aiuterà a superare questo momento. Serve una svolta politica coraggiosa, e serve subito. I morti a Kishinev nel 1903 furono 49, i feriti 500, 1300 fra case e negozi vennero distrutti. Anche allora il mondo condannò, dopo. Bialik ci dice – da un secolo – di fare qualcosa, prima.
Gadi Luzzatto Voghera, storico
(21 novembre 2014)